sabato 25 novembre 2023
Qualcosa non torna e questo qualcosa ha a che fare con le parole. Che sono importanti, sempre. Accanto al porto d’armi servirebbe il porto di parole: eviteremmo aggressioni, ferite, istigazioni a delinquere di chi mette parole contundenti a disposizione e poi fa spallucce: io le parole le costruisco, se poi qualcuno le usa che cosa c’entro? Così fa bene Mario Giro su “Domani” (23/11) a scrivere, a proposito di violenze sulle donne e linguaggio della musica trap: «Tutti sono coinvolti e nessuno può dire che la colpa è di altri. Nemmeno i cantanti. Come scriveva Carlo Levi: le parole sono pietre». Vale anche per la parola patriarcato, che ognuno intende ed estende come gli fa comodo. Un’arma maneggevole. Così c’è chi sente il bisogno di precisare. Il titolo: «Il vero problema non è il patriarcato ma il culto della forza di cui siamo schiavi» riassume bene la pagina di Vito Mancuso sulla “Stampa” (24/11), che punta l’accento sul suffisso “archè”, presente anche in matriarcato. E sulla “Repubblica” (24/11) Massimo Ammaniti rema temerariamente contro corrente quando scrive che le violenze «non nascono oggi dal potere patriarcale, che lo usava per legittimare la sua supremazia, originano piuttosto dalla debolezza e dalla fragilità degli uomini, che sentendosi impotenti e impauriti per essere sopravanzati affettivamente e socialmente dalle donne, reagiscono con raggia e odio». Uso smodato e criminale della forza derivante da una debolezza inaccettabile, dunque? Mario Sechi su “Libero” (24/11), titolo: «I nuovi Robespierre ci vengono a trovare», denuncia il corteo poco amichevole sotto la sua redazione; ma se provochi non è forse per ottenere la reazione del provocato? Se lanci una parola-pietra ti stupisci di ricevere altre parole-pietre? E i titoli di “Libero” non sono tenacemente e orgogliosamente provocatori? Scrive Sechi: «Sul femminicidio come conseguenza del patriarcato la sinistra ha scatenato l’ennesima guerra lampo culturale». Non ha torto, ma Mancuso e Ammaniti da chi sono ospitati? Parole... Sulla “Stampa” (23/11) il titolo al commento di Marco Follini sul caso Lollobrigida-Frecciarossa è: «L’arroganza politica di scendere dal treno»; ma né la parola «arroganza» né (ci sembra) il concetto di arroganza compaiono mai nel testo. E Follini è molto attento alle parole. © riproduzione riservata
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