Speravo in me stesso: ma il nulla mi afferra./ Speravo nel tempo: ma passa, trapassa;/ in cosa creata: non basta, e ci lascia./ Speravo nel ben che verrà, sulla terra:/ ma tutto finisce, travolto in ambascia.
Nella Bibliografia reboriana pubblicata quest'anno da Olschki ho visto con sorpresa che sono stati citati tutti i "Mattutini" che ho dedicato a questo poeta milanese (1885-1957), divenuto sacerdote rosminiano dopo una crisi spirituale maturata al termine della prima guerra mondiale a cui aveva partecipato come ufficiale di fanteria. Ritorno a Rebora, al volume Poesie che Garzanti gli ha dedicato nel 1988, e cito i versi iniziali della poesia "La speranza". Sono parole aspre, fin amare, eppure le propongo non per rovinare la festa dei lettori già in vacanza o in partenza per il sospirato "stacco".
Sono temi necessari proprio nei giorni più quieti, quando le cose e i ritmi quotidiani meno ci assillano. È allora che dovremmo guardare dentro noi stessi e sollecitare quelle domande che di solito lasciamo deperire o spegnersi. Il tempo ci sfugge continuamente di mano; noi stessi ci troviamo insoddisfatti e talora persino estranei alla nostra anima; le altre persone ci deludono e le cose non ci bastano mai. Accanto a noi vediamo gente morire in modo imprevisto e imprevedibile; gli eventi si accavallano e spesso lasciano dietro di sé solo lacrime e insuccessi. Il fare senza posa può essere una narcosi, una sorta di droga o di sonno dello spirito. Ma questo non basta. Ecco perché bisogna pensarci. Non per disperarsi. E qui è significativa l'altra parte della poesia di Rebora che sente la «Voce dell'Amore che chiama e non langue» provenire proprio da una croce di morte, quella di Cristo. È così che l'uomo si riprende per una risurrezione di speranza e di vita.
© Riproduzione riservata
ARGOMENTI: