Si apre domani a Torino il Salone del Gusto e, come in un film dove si scatena la tempesta perfetta, è l'enogastronomia politica a prendersi la scena. Un genere che ci accompagna da sempre: dalle ironie enologiche sui capi di stato al "pane e cicoria" di Rutelli, passando per il "patto della crostata" di casa Letta fino alle cene non celebrate dei giorni scorsi che hanno portato a titoli ironici: "Una Repubblica fondata sulla tavola". Ora, se qualcosa dobbiamo a Carlin Petrini è di aver messo al centro della scena non il folklore del mangiare e bere, ma il tema del gusto. Quindi una cosa seria, che passa attraverso la convivialità, ma anche l'agricoltura secondo il suo motto che "mangiare è un atto agricolo". Nessuno ha sfruculiato sul manifesto che promuove il Salone: un pugno chiuso, che in passato aveva tanti significati, oggi sbiaditi dalla caduta delle ideologie. Ma dice comunque di un atteggiamento di lotta, di battaglia, di conquista, perché non c'è cosa peggiore che vivere il gusto senza la consapevolezza che questo comporta. Si mangia ma, dietro a produzioni, commerci e consumi, si muovono interessi che molto spesso deprimono l'anello debole della filiera: il primo, quello agricolo. Il gusto non è qualcosa di banale e nemmeno una faccenda per ricchi: è un dato oggettivo. Esiste, c'è, e si rende presente in quell'intermediazione fra la natura e l'uomo che ricrea, secondo un modello che sembra fatto a immagine di chi ha dato il là a tutto. Ma quel pugno chiuso fa anche pensare ai 50 anni che sono passati, a quel '68 di scontri e anche di messa in discussione di ciò che eravamo. Fu una grande domanda il '68, giustamente evocato in una mostra e in una serie di incontri che un mese fa si sono svolti al Meeting di Rimini. Cosa è rimasto? Be', si può dire che il Salone del Gusto sia in qualche modo un'eredità ben riuscita di quelle istanze, non solo per la militanza di Petrini, ma soprattutto per le conseguenze. Cioè un progetto sull'agricoltura, sull'alimentazione, che rimarca elementi di solidarietà, ampiamente presenti in questa edizione. Non tutto è sfociato nel terrorismo o nella disillusione dei nuovi borghesi col pugno chiuso e il Rolex al polso. C'è stato anche un metodo, che ha iniziato a guardare le cose tenendo presente il mondo, che poi è il progetto di Terra Madre. In un intervento a Rimini, Mario Calabresi ha raccontato un '68 similare, ossia dei giovani zii che con i regali di nozze hanno aperto un ospedale in Africa. Uscivano da quell'epoca di forti rivendicazioni, che poi hanno tradotto nel tentativo di mettere un timbro, di costruire qualcosa che fosse coerente con quelle istanze. Ed è così, che alla fine, una storia si ricompone. Non con gli slogan urlati, ma col cuore oltre l'ostacolo... verso altri. E le cose prendono gusto.
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