Bambino. Quale parolina ha un suono più dolce e soave? Nessuno, tranne pochi burloni, si dice apertamente "contro" i bambini. Nessuno ne parla male, anche se ne pensa male, fosse solo sottovoce. I bambini, e in genere i cuccioli, fanno tenerezza.
Invece da molti anni ormai "bambino" sta tramutandosi in parolaccia. Accade da quando il bambino, dall'ambito della famiglia e degli affetti, ha cominciato a scivolare con una progressione geometrica nell'abbraccio del mercato. È un percorso lento, all'inizio quasi impercettibile, che nasce 60 anni fa con la televisione, il boom, il consumismo e la pubblicità, suo braccio armato. I bambini non dispongono di denaro, mancette a parte. Possono però indurre i genitori e i nonni a spendere. Ma affinché i loro desideri vadano nella direzione voluta, occorre plasmare l'intero loro mondo, i loro valori, ciò che dà senso alla vita.
In un pamphlet di fulminante lucidità (Manuale per l'allevamento del piccolo consumatore, Einaudi, 2000) Paolo Landi – allora direttore pubblicità della Benetton – avvertiva: «Nel mercato dei giovanissimi il segmento di domanda più importante riguarda la classe di età nove-dodici, quella dei pre-teens: un gruppo di consumatori che inizia a manifestare comportamenti d'acquisto del tutto autonomi e pertanto particolarmente interessanti per le aziende». Ricordate Giannino e Pierfilippo, i due pre-teens di domenica scorsa? Pierfilippo, definito "maschio dominante" da Giannino, valuta i coetanei in base a ciò che possiedono. Io sono quel che ho e di cui faccio sfoggio. Scarpe, calzoni, felpe, tute, merendine, gadget elettronici erano ieri un prolungamento del ragazzo; oggi sono il ragazzo, lo definiscono completamente.
Non è facile pensare ai bambini, a molti, moltissimi bambini e quasi-ragazzi nei termini di un provetto consumista che mette in cima ai valori le merci, affidando esclusivamente a loro la propria felicità. La prova è la grande quantità di bambini infelici, tristi, incupiti, simili a motori ansimanti. O, al contrario, perennemente sovraeccitati, come un'auto con l'acceleratore sempre premuto. Ricorda Landi: «Il consumo è il rimedio a forme di infelicità indotte dalla pubblicità e dai suoi modelli». Vale per gli adulti ma vale anche per i bambini, vale per i genitori e vale per i figli. D'altronde, se i figli vedono e ascoltano dei genitori che profondono ogni loro energia nel consumare telefonini, automobili, vacanze di prestigio, capi firmati, e parlano quasi solo di quello, perché mai dovrebbero crescere con valori e desideri diversi? Tenderanno a imitarli e assecondarli. Se poi i genitori sono ragionevoli ma commettono il tragico errore di esporre i figlioli a dosi massicce di televisione generalista, abbandonandoli a lungo davanti allo schermo, la frittata è comunque fatta.
«La pubblicità non vende soltanto prodotti ma un intero mondo in cui i prodotti sono lo scopo e la ragione ultima della vita», avverte Landi. Lo sappiamo. L'abbiamo sempre saputo. E non occorre che qualcuno ce lo ricordi da un abisso di tempo lungo 20 anni, quando non esistevano gli smart e le merci si acquistavano in lire. Lo sappiamo, ma non ne traiamo le conseguenze. Non ci proteggiamo, come se la cosa in fondo fosse del tutto innocua. Invece è proprio qui che il materialismo ateo vince la sua battaglia. Non cavalcando le ideologie, il comunismo o quant'altro. Ma avvolgendoci in un abbraccio dolce e fatale. Così ci ritroviamo ad adorare il vitello d'oro quasi senza accorgercene, i bambini per primi. E lo sappiamo, certamente, ma restiamo attoniti e inerti, mentre i Pierfilippi spopolano e i Giannini resistono, eroici e solitari.
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