La signora F. non si è sposata, non ha figli né parenti. Ha ottant’anni e vive sola vicino al Cimitero Maggiore, a Milano. Una palazzina a due piani con un piccolo giardino interno, il vivaio che F. per decenni ha coltivato per il suo negozio di fiori. Ora il negozio ha chiuso, ma lei non abbandona le sue rose, che cura, pure con la schiena dolente, ogni mattina. Incredibile come in quel piccolo giardino di Milano F. riesca a fare fiorire i limoni, e come i frutti del colore del sole splendano contro il grigio del cemento attorno.
Le mura, appunto: da sempre quella palazzina se ne stava in mezzo a due stabili della stessa altezza. Ora però, con i palazzi di Cascina Merlata spuntati fitti, tutti di cristallo, a nord del cimitero, la zona Certosa si sta, come si dice, riqualificando. Cioè, ogni metro vale oro. Sorgono loft e bilocali green, coibentati, domotici, a 5.000 euro al mq. E anche la modesta palazzina alla destra della casa di F. è stata venduta, e in pochi giorni una ruspa ne ha buttato giù le mura (la casa dove abitavano, di F., le compagne di scuola). Lei racconta, il viso segnato di stanchezza e di un’ombra di spavento, del giorno in cui è stato demolito il muro adiacente, e tutta la sua stessa casa tremava e scricchiolava, gemendo dalle fondamenta.
La casa di F. non ha ceduto, i demolitori sanno fare il loro rude mestiere. Ora al posto dell’antico fabbricato accanto c’è una voragine: resta su un muro, sbiadita, l’insegna di un ristorante scomparso da cinquant’anni. Una trattoria dove i parenti si fermavano a mangiare e bere e consolarsi, sepolti i propri cari al cimitero. Mura grondanti di ricordi, ma nessuno li avverte, e poi c’è fretta, fretta di ricostruire. (Con quel che vale un metro quadro a Milano , mica si può perdere tempo). Il vuoto lasciato dalla palazzina in realtà non è grande, ma già un cartello annuncia una nuova residenza, finiture di lusso.
Adesso, ci sarebbe la palazzina di F.
Suadenti agenti immobiliari la corteggiano a turno, «Signora, in cambio della sua vecchia casa le diamo un bellissimo bilocale col parquet, l’aria condizionata e le luci che si comandano a distanza». Scuote la testa F., ride: non se ne parla nemmeno. «Ma guardi – insistono quelli – che l’appartamento si affaccerà su un giardino interno…». Scuote più risoluta la testa la donna: «Affacciata all’interno?»
Lei, è cresciuta guardando il viale Certosa. E finché vive vuole vedere passare il tram 14. Il primo all’alba, già con le badanti che vanno a lavorare. L’ultimo a notte, vuoto: lo sente che fila via sulle rotaie verso il deposito, stanco, nel buio.
I giovani agenti immobiliari proprio non capiscono che importi, vedere passare un tram. Fissazioni da vecchia. E quella palazzina, che boccone sarebbe. Un’altra residenza tutta green, tutta domotica.
Che pena nel bel viso antico di questa milanese. Così sola, mentre a colpi di benna distruggevano le mura accanto, e anche la sua casa – la sua stessa vita – vacillava nei tonfi, nello scontro ostile fra macerie e acciaio. E che polvere, poi, si alzava dal cantiere: sembrava la nebbia di un tempo, al mattino, d’inverno, quando dalla finestra F. non vedeva più la casa di fronte. Tutto scomparso. Ma lei, ragazzina, sapeva che presto sarebbe tornato il sole, e le case del viale, uguali.
Quest’altra nebbia quanto era diversa: acre, bruciava gli occhi e la gola. E quando poi è scomparsa davvero non c’era più, la casa accanto. Le amiche che ci abitavano, se ne sono andate da tanto. Milano ha fretta, fretta, ansia di spazio e di guadagno. Spinge F. e quelli come lei ai margini, quasi li invita a liberare metri preziosi. (Io però sto con lei, che ostinata e gentile coltiva i suoi splendenti limoni. E attende come un saluto il fruscio metallico del primo tram 14, al mattino).
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