Il Comitato olimpico internazionale ha autorizzato la partecipazione ai Giochi Olimpici di Parigi 2024 di atleti russi e bielorussi sotto una bandiera neutrale. Di quelle due nazioni saranno escluse dai Giochi solo le squadre ed eventuali atleti che avessero sostenuto attivamente e palesemente l'invasione russa dell'Ucraina. Mi piacerebbe poter dire solennemente “giusto!” oppure “sbagliato!”, ma non ne sono capace. Non ne sono capace prima di tutto perché so bene che tutti i problemi complessi hanno sempre una soluzione semplice che, di norma, è sempre sbagliata e inefficace. E poi perché nella mia carriera sportiva ho avuto la fortuna, la gioia, l’onore di partecipare due volte ai Giochi Olimpici, ad Atene nel 2004 (la prima edizione dopo l’attentato dell’11 settembre alla Torri Gemelle) e poi a Londra nel 2012. In entrambe queste occasioni ho avuto modo di constatare personalmente due evidenze. La prima è che i Giochi Olimpici sono un avvenimento planetario dalla fortissima connotazione politica, cosa che peraltro giudico in maniera del tutto positiva e che accade dalla prima edizione ad Olimpia, nel 776 a.C. La seconda è che quello che succede dentro al Villaggio Olimpico è la situazione che abbia mai sperimentato più vicina a un mondo ideale, in cui mi piacerebbe vivere, una specie di utopia in azione, perché ho visto davvero atleti americani e afghani in coda allo stesso ristorante, ho visto davvero atleti israeliani e palestinesi appendere le rispettive bandiere in edifici a pochi metri di distanza gli uni dagli altri, ho visto davvero atleti russi e ucraini brindare (anche troppo) alle rispettive vittorie. Insomma, ho visto un modello di società possibile, che funziona. Proprio per questo il pensiero non può non andare agli ultimi giorni precedenti all’invasione russa in Ucraina, a quel febbraio del 2022, quando una manciata di giorni prima dello scoppio delle ostilità due atleti (Ilia Burov, russo, medaglia di bronzo, e l'ucraino Oleksandr Abramenko, vincitore della medaglia d'argento) si abbracciano al termine della finale di freestyle ai Giochi Olimpici invernali di Pechino, lanciando un messaggio al mondo, ahimè inascoltato. Quella è l’ultima fotografia olimpica che ricordiamo, prima di questo infinito periodo di guerre. A Parigi ci aspettano Giochi difficili, forse i più difficili da quei terribili dodici anni che separarono Monaco 1972, con la strage di atleti e tecnici israeliani ad opera di Settembre Nero e che precedette la lunga stagione dei boicottaggi (Montreal 1976, 28 Paesi africani che boicottarono i Giochi per protesta contro l’apartheid in Sudafrica, poi Mosca 1980 e Los Angeles 1984 con i rispettivi boicottaggi del blocco prima occidentale e poi sovietico). In Francia, a partire dal prossimo 26 luglio, si sfideranno atleti russi, ucraini, arabi, israeliani e di tanti altri Paesi i cui popoli vivono in condizione di guerra, dittatura, discriminazione. Non voglio essere retorico, ma vivo nel costante dilemma che quei diciassette giorni della prossima estate possano essere un indicibile rischio di tensioni estreme e, allo stesso tempo, una gigantesca occasione per l’umanità. Tifo, con tutto il cuore, per questa seconda ipotesi.
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