Con giusta ragione i titoli e i commenti, sulla Rete e sui media cartacei, relativi alle parole pronunciate da papa Francesco mercoledì 3 giugno, nel corso dell'udienza generale, si sono focalizzati sui riferimenti all'attualità, sebbene, tecnicamente, essi fossero compresi nei «saluti» ai fedeli di lingua inglese. È in quel momento che, manifestando la sua «grande preoccupazione» per i disordini sociali seguiti alla morte di George Floyd, il Papa ha parlato del «peccato di razzismo» e dell'intollerabilità di «qualsiasi tipo di razzismo o di esclusione». Ma altrimenti sarebbe stata la catechesi vera e propria, su «La preghiera di Abramo» ad avere grande attenzione. Quella che le ha dedicato, sul suo blog ( bit.ly/3cxyKCj ), Luigi Accattoli. Il passaggio che lo ha intrigato al punto da costruirci il titolo del post è quello in cui il Papa dice di aver sentito «tante volte» di persone arrabbiate con Dio, e che anche questa «è una forma di preghiera». Accattoli lo lega all'omelia da Santa Marta del 23 marzo, quando (anche quella volta, come questa, parlando di «un'eresia»), non escluse che si potesse «quasi» minacciare il Signore. Nel commento, testimonia di aver sentito anch'egli, ripetutamente, amici e lettori dirsi arrabbiati o «in lite» con Cristo, quando, nella prova, le loro insistite preghiere di domanda non sono state esaudite, e conclude segnalando il valore aggiunto delle parole di papa Francesco nella loro «veridica referenza a confidenze frequenti tra i cristiani comuni». Dei limiti della «preghiera di domanda» si occupa il teologo spagnolo Andrés Torres Queiruga nello Studio del mese dell'ultimo numero de "Il Regno" ( bit.ly/2XYUy4C ). La sua lucida, appassionata e convincente riflessione, scritta nel pieno della pandemia, può anche essere letta come una risposta ai tanti cristiani comuni arrabbiati con Dio: «Non esiste situazione umana che possa essere tradotta in abbandono da parte di Dio e che, pertanto, possa mettere in dubbio la possibilità di un affidamento totale».
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