A Sarajevo sono arrivato facendo l'autostop. Cercando un passaggio con il pollice alzato rivolto ai radi veicoli, perlopiù camion in transito su una strada bianca e scalcinata che saliva sul monte Igman. Trasportavano di tutto e di più per rifornire il mercato della "borsa nera". Una via tortuosa tra boschi e scarpate, unico accesso alla città. Costruita dai bulldozer militari di un contingente di caschi blu delle Nazioni Unite, doveva spezzare l'assedio dei serbi che, nei primi anni Novanta, che stringeva con abbraccio di morte la "Gerusalemme dei Balcani".
Zaino in spalla e tra i vestiti anche generi di conforto difficili da reperire dentro un assedio, macchina per scrivere portatile nella mano destra, appesantita da una risma di carta per scrivere i pezzi da dettare al giornale, giubbotto antiproiettile trascinato con quella sinistra, sono mancino, e l'elmetto in kevlar, con la scritta "Press", stampa, legato alla cintola. Con i vestiti già ricoperti da un leggero strato di polvere ho provato a chiedere un passaggio a una pattuglia motorizzata della Legione straniera francese. Ma un altro sbuffo di polvere cadeva sulla mia giacca che già stava perdendo il suo colore blu notte, per diventare ancora più grigio bianca.
Dopo un po' d'attesa, si fermava un camion che trasportava nel cassone una donna con due galline, un militare bosniaco di 17 anni di rientro dalla licenza, un altro giornalista, sacchi di cemento e travi di legno, una mucca e una sedia a rotelle. Quest'ultima destinata al figlio tetraplegico, a causa di un proiettile nella schiena, del cortese camionista.
La guerra si stava attenuando, si era quasi arrivati ad accordi di pace, ma il pericolo principale rimaneva quello dei cecchini, perfidi assassini dal colpo unico e preciso come uno schiocco di frusta. Si racconta che tra le file di quei degenerati della morte a tradimento ci fossero anche degli italiani. A quei Giuda tiratori bastava un piccolissimo varco aperto come una luce accesa nella notte per centrare il segno e abbattere l'incauta preda, anche a più di un chilometro di distanza. Non facevano distinzioni di sesso ed età. Chiunque capitava nel loro mirino diventava un bersaglio. Non lasciavano scampo e non avevano clemenza. Neppure per i bambini sul passeggino spinto dalla mamma. Il bersaglio preferito. Bang.
I più impietosi ferivano le loro vittime in modo grave, ma da non farle morire subito. Il lamento dell'agonizzante, le richieste di aiuto, il pianto del morituro dovevano fare da richiamo ai soccorritori. Bang. Bang. Anche delle donne hanno imbracciato il fucile di precisione da chajnep, per fare il lordo lavoro criminale del cecchino. Fu così che venticinque anni fa, nel mese di ottobre, veniva ucciso Gabriele Moreno Locatelli. Aveva 34 anni, ex frate minore francescano, si trovava a Sarajevo con i Beati costruttori di pace di don Albino Bizzotto per una marcia in favore della convivenza. Gabriele era con altri quattro pacifisti quando, attraversando il ponte Vrbenja, che segnava il confine di guerra, venne colpito a morte da un cecchino. Il gruppo voleva rendere omaggio a Suada Dilberovic, una pacifista che fu la prima vittima di quel conflitto, e poi donare pane ai militari serbi e a quelli bosniaci.
A Sarajevo, Gabriele è ricordato come un grande eroe della pace e una strada gli è stata dedicata là dove lui non poté andare oltre.
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