Non c'è cristiano impegnato che non si sia trovato seduto, a Messa, accanto a dei praticanti saltuari o non praticanti i quali, apparentemente, erano in chiesa per ragioni di opportunità sociale: la festività del Natale, un sacramento celebrato in forma solenne per un familiare o amico, un funerale. Almeno una volta, il primo non avrà resistito alla tentazione di rimarcare, dentro di sé o con qualche sguardo eloquente, l'inadeguatezza del comportamento e dell'abbigliamento dei secondi. A riscattare queste vittime del nostro perbenismo liturgico giunge, sul blog collettivo “Vino Nuovo” ( tinyurl.com/yyrtalhw ), un bel post di Maria Grazia Giordano. La cerimonia di cui narra non è abituale: si tratta della Cresima impartita a un gruppetto di adulti in una parrocchia della periferia romana. Né il ruolo dell'autrice è neutro: è la loro catechista. Verso quelli che chiama «i miei cresimandi» ha evidentemente maturato un'empatia. Li descrive «tutti molto emozionati, sentono l'importanza di questo momento». Incamminatisi verso il sacramento per qualche «pretesto esistenziale», cercavano in realtà «salvezza» dalla crudezza della vita e dal disorientamento, e hanno trovato «un nuovo coraggio». A maggior ragione non può che rammaricarsi che i loro parenti e amici «vestiti a festa, probabilmente per la cena che seguirà», non seguano la celebrazione. «Alcuni stanno fuori a parlare al cellulare, altri chiacchierano tranquillamente tra di loro», e mentre il vescovo Di Tora spiega nell'omelia che la cresima «è uno stile di vita», pochi tra i banchi sembrano ascoltarlo. Ma un tatuaggio rivelatore sull'avambraccio di uno di loro fa saltare le categorie mentali con le quali la catechista era tentata di dividere in due i presenti a quella Cresima: «Mi dico ancora una volta (…) che la realtà è più grande, inattesa, complessa, e che lo Spirito, come sempre, soffia dove vuole». Fortunati gli adulti che avranno, come catechisti della Cresima, persone altrettanto appassionate e interiormente libere.
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