Confratello speciale, fino dal nome: Giovanni delle Celle. Famiglia nobile, da Catignano, luogo di origine presso Volterra, ma lui è nato a Firenze nel 1310: allora Dante scriveva la sua “Commedia”. Studi degni di un rampollo della nobiltà, ma una sua “vocazione” precoce cambia tutto. Entra giovanissimo tra i monaci benedettini di Vallombrosa dove spicca per intelligenza e cultura, ma il carattere è vivace e a tratti turbolento, testardo e fuori dalle righe, pur controllato dalle virtù. Studia Bibbia, Diritto e Lettere, scrive benissimo in latino e nel volgare del tempo. Cresce bene e i confratelli lo vogliono abate del Monastero di Santa Trinità, nel cuore di Firenze. Arriva però un evento davvero singolare, su cui le fonti si contraddicono spesso. Qualcuno parla di una vera “storia” con una donna, con effettivo tradimento dei voti, altri raccontano che in una confessione pubblica ai suoi monaci egli aveva chiesto perdono per qualche sogno erotico che turbava le sue notti, altre fonti riferiscono che, essendo esperto di riti strani e quasi magici, aveva “evocato” seducenti figure femminili sui muri della sua cella…È scandalo, e i monaci lo degradano, condannandolo per un anno in una prigione dentro una torre presso Pitiano, sempre zona Vallombrosa: solitudine e pane e acqua…Passato l’anno, però, appare cambiato e nel 1349 i suoi monaci lo rivorrebbero abate a Firenze, ma lui dice no e torna a Vallombrosa, non nel grande convento, però, bensì nella cella di un romitorio, solo, segregato volontario a vita, al punto tale che vuole cambiare anche nome: Giovanni delle Celle. Finita? Proprio no! Non parlava con nessuno, ma scriveva, e le sue lettere entrano nella vita non solo fiorentina del suo tempo. Perché? Qui entra in gioco, decisiva, ancora una volta una donna, ma ben diversa. E che donna! Il suo nome è Caterina Benincasa, proprio Caterina da Siena, santa e poi prima donna in 2000 anni Dottore della Chiesa. Diventano amici, e si scrivono: lei analfabeta detta molte lettere indirizzate a lui, che scrive ai potenti e prepotenti di Chiesa e di mondo per difenderla dalle accuse di “eresia”. Così, per esempio, scrive ad un allora famoso Frate Ruffino che denunciava come pericolosa questa “donnicciuola” ignorante che osava contrastare vescovi e papi perfino richiamandoli al Vangelo: «Fra Ruffino, Caterina gode della tua villania, per amor di Colui che tante ne sostenne per lei, piange della tua cecità e malizia e prega Dio che ti illumini e ti perdoni». Caterina tra l’altro chiede a Giovanni di pronunciarsi a favore del vero Papa, Urbano VI contro l’antipapa Clemente VII, e fino al 1378 lotta perché finisca lo scandalo del Papa ad Avignone. Giovanni le obbedisce sempre, ma non si muove dalla cella: scrive ai fiorentini, potenti e popolo, in appoggio alle richieste di Caterina…Così per 40 anni: preghiera, penitenza, scritti teologici e lettere a grandi e piccoli in uno stile tutto suo. Il grande Don Giuseppe De Luca, finissimo letterato amico di papa Giovanni, dirà che la sua prosa è “viva e forte”, un esempio di lingua fino ad oggi…E così quella cella di frate penitente diventa per decenni come un faro di luce che guida preti e laici, nobili e borghesi, potenti e semplici…A lungo. Nel 1380 lo raggiunge qui la notizia della morte della sua Caterina, e lui reagisce scrivendo così ad uno dei suoi: «Figliolo mio Barduccio, come oggi mai vivremo più, perché è morta la nostra madre, la nostra consolazione? Che potremo noi fare altro se non piangere la nostra desolazione?». Piange a lungo, 16 anni, lui, che muore nella sua cella il 10 marzo 1396, subito venerato come beato dalla liturgia di Vallombrosa: beato o meno, certo penitente e felice di esserlo: un caso unico, pare.
© riproduzione riservata
© Riproduzione riservata
ARGOMENTI: