Una coppia giovane, con un figlio di otto anni, lui specializzato in teoria quantistica dei campi, lei arredatrice in carriera, si trova smarritamente a fare i conti con la vita quando muore la signora A., la domestica che nove anni prima era entrata nella loro casa durante la gravidanza difficile di Nora, costretta a letto per mesi. La signora A., con la sua istintiva saggezza e con il suo infallibile senso pratico, finisce per esercitare sui due giovani il ruolo genitoriale che inconsciamente desideravano, e verso il piccolo Emanuele è la nonna affettuosa che valorizza e rassicura il ragazzino che non è il fuoriclasse che i genitori vorrebbero. La madre di Nora si è risposata con un Antonio, padre di una figlia già grande; suo padre, quando Nora gli ha annunciato il matrimonio, si era limitato a dire: «L'importante è tenere i conti separati, perché l'amore è l'amore, ma i soldi sono i soldi». L'unica figura paterna per il marito è il suo professore, il quale, apprendendo che il collaboratore si sarebbe sposato, disse solamente: «Manca ancora qualche mese, fai in tempo a ripensarci». Con simili precedenti, è chiaro che la coppia cercava un appiglio.Che cosa manca a Nora e al marito, da quando la signora A. non c'è più? «Manca il modo con cui ci dava coraggio». Perché «a lungo andare ogni amore ha bisogno di qualcuno che lo veda e riconosca, che lo avvalori, altrimenti rischia di essere scambiato per un malinteso. Senza il suo sguardo ci sentivamo in pericolo». Il buonsenso della signora A., vedova del suo idolatrato Renato, era il radicamento non tanto in una cultura, quanto il raccordo con la natura, con la realtà, con la storia. «Attraverso di lei sperimentavamo una nostalgia un po' vile per un modello decaduto, semplificato, di famiglia, un modello in cui ognuno non doveva essere tutto quanto contemporaneamente – maschio e femmina, logico e sentimentale, arrendevole e severo, romantico e pedestre –, un modello diverso da quello che nel nostro tempo c'investe di una responsabilità così ampia e indifferenziata da renderci sempre e comunque manchevoli».La scomparsa di A., lei stessa negli ultimi tempi amareggiata, non sostenuta dalla sua religiosità convenzionale (il ragionamento sul ruolo, assente, della religione in questo romanzo lo faremo in altra sede), fa percepire a Nora e al marito l'insanabile separatezza che definisce l'essere umano: avevano creduto che l'argento di Nora, la sua vitalità, la sua positività femminile, e il nero del marito, così razionale, così malinconico, potessero fondersi in un fluido metallico e brunito, con la linfa rutilante della signora A. come catalizzatore: «Mi sbagliavo. Ci sbagliavamo. Ogni elemento, nonostante l'assiduità e l'affetto, restava diviso dagli altri. Eravamo, a dispetto delle nostre speranza, insolubili l'uno nell'altro». Ma chi ha intuito tutto, forse, è proprio il figlio, il bambino Emanuele, quando una sera, rientrando da una non felicissima recita scolastica, restava tenacemente afferrato alle mani dei genitori, «come a dire che lui ha capito, ha capito che le persone si allontanano, le persone se ne vanno e basta, per sempre, ma noi no, a noi non lo permetterà, almeno fintanto che ci manterrà uniti così».Il nero e l'argento è il terzo romanzo di Paolo Giordano (Einaudi, pagine 124, euro 15,00), dopo La solitudine dei numeri primi (2008), certamente uno dei vertici della narrativa contemporanea, e dopo Il corpo umano (2012), ambientato rudemente fra i soldati italiani in Afghanistan. Lo scrittore dimostra di sapersi esprimere su diverse tastiere e qui, con il coraggio della prima persona singolare, racconta una storia, splendida e disperante, che trafigge il cuore del lettore. Finalmente un romanzo non antagonista del pensiero.
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