Questa settimana, al netto di ulteriori colpi di scena, succederà. Anzi, doveva già succedere domenica scorsa, ma un gol di Boulaye Dia, attaccante senegalese della Salernitana, ha gelato migliaia di tifosi che erano già pronti per la festa. Uno di quei momenti imprevedibili e affascinanti che lo sport è capace di regalare, una doccia fredda, a sette minuti dalla fine della partita, per uno stadio dove non c’era più spazio neanche per uno spillo, per una città intera e per tanti napoletani nel mondo che quell’urlo di gioia in gola lo conservano da trentatré anni. “Sciocchezze”, dirà qualcuno. “Sono altre le cose importanti”, sosterranno altri. Anni fa Arrigo Sacchi aveva ricordato che «il calcio è la cosa più importante delle cose meno importanti» e forse oggi siamo in grado di comprendere, una volta di più, il significato di quella frase.
Basta una passeggiata nel cuore di Napoli, osservando senza pregiudizi. Si vede, si sente, si percepisce, si annusa, si gusta l’imminente arrivo di una gioia immensa. Verrebbe quasi da dire che questi “tempi supplementari”, in attesa del momento ufficiale dell’esplosione di quella gioia, siano un dono. D’altronde l’attesa è essa stessa piacere, come abbiamo imparato studiando “Il sabato del villaggio” di Giacomo Leopardi. E allora passeggiare per le vie di Napoli in questa settimana sospesa, testimonia come il calcio sia un fatto sociale totale.
Stonano le dichiarazioni di alcune tifoserie che hanno imposto una sorta di divieto ai festeggiamenti per i tantissimi tifosi napoletani residenti in città diverse da quella che sarà l’epicentro della festa. Al di là del fatto che quel goffo tentativo non avrà la minima possibilità di successo, è doloroso pensare che la gioia altrui rappresenti una frustrazione così forte da non volerla vedere. Invece, quando il momento arriverà, la gioia sarà incontenibile e farà il suo mestiere, ovvero quello di essere contagiosa. Un po’ come quando una persona scoppia a ridere in una stanza e, inconsapevolmente, tutti condividono un sorriso.
Fa ulteriormente sorridere che proprio a distanza di pochi mesi, esplodano di gioia l’Argentina, ultimo mondiale vinto nel 1986 e Napoli, ultimo scudetto vinto nel 1990. C’era un legame profondo, fra quelle vittorie. Si chiama Diego Armando Maradona che, purtroppo, non sarà della festa se non con il suo nome, regalato allo Stadio San Paolo e con il suo viso impresso su centinaia di migliaia di bandiere.
Voglio credere che questa gioia senza freni possa unire e non dividere, perché è molto difficile non empatizzare di fronte a sentimenti estremi, come la felicità o il dolore. Succederà nella settimana – forse nello stesso giorno – in cui onoreremo la memoria del Grande Torino, una squadra che grazie alla bellezza del gioco e alle sue vittorie, contribuì alla felicità di un Paese che si stava risollevando dalle macerie della Seconda Guerra Mondiale. Quel 4 maggio 1949, il giorno del tragico incidente aereo di Superga, il Paese si unì in un dolore sconfinato. Dopo 74 anni, è bello pensare a una gioia capace di un effetto simmetrico. Credo che proprio la valutazione dell’impatto sulla società di questi zenit e nadir delle emozioni, siano ciò che spinse il direttore di “Avvenire”, Marco Tarquinio, ad affidarmi, ormai otto anni fa, queste settimanali riflessioni sullo sport come linguaggio universale, strumento potente e capace di raccontare tanto altro, collocandole non nella cronaca sportiva, ma qui nelle Pagine delle Idee. Non ti ringrazierò mai abbastanza per quella intuizione, Direttore. E, di cuore, buona fortuna!
© riproduzione riservata
© Riproduzione riservata
ARGOMENTI: