L'estate, al netto di chi non si muove dalle spiagge italiane, è un momento speciale dove succede di ritrovare l'agricoltura nel suo momento vitale. C'è chi fa le fienagioni in montagna e chi, in collina, osserva come il tempo interagisce con la vigna. Quando arrivava l'estate, dopo la pausa del mare perché il medico lo prescriveva ai bambini, si andava in campagna. E quelle erano le estati più belle, perché c'era intorno un senso di raccolto, di operosità. L'immagine dei campi di grano tagliati aveva il giallo delle balle di fieno, che servivano alla filiera: la stalla, i bovini. E tutto sembrava ordinato dentro a un ciclo. Che si è spezzato, nel nome della specializzazione, del piccolo non è bello, salvo scoprire che la cura del territorio diventava un costo per la comunità anziché un dovere, con ciascuno che faceva il suo pezzo. Oggi leggiamo che il prezzo del grano italiano è crollato. Ed è antieconomico. Il tam tam prosegue da settimane e parla di un segno negativo: si coltiva per perdere. Leggo i resoconti delle riunioni di agricoltori arrabbiati, dove la soluzione che si paventa è passare dalla "commodity" alla "speciality". E vien da dire: dove sono stati fino a ieri questi signori, mentre molini e pastifici sceglievano proprio la strada della distinzione qualitativa? La filosofia del km zero funziona, ma se conviene; se invece diventa un'ideologia che conia una nuova parola d'ordine, non produce un'economia. Anche l'affermazione di un prodotto ha bisogno della filiera, come le cascine della mia infanzia. Ma in questo caso è una filiera di marketing. Perché si può produrre il grano più buono e sicuro del mondo, ma se non gli si dà valore spiegandolo, non lo si promuove, un prodotto vale l'altro. La moderna agricoltura non è più quella dei sussidi, che appartiene a una generazione di meri produttori; l'agricoltura di oggi deve fare i conti con la distinzione in un'ottica di filiera: dal campo alla trasformazione fino al consumatore consapevole della differenza. Ma come la si racconta questa differenza? Pensare che in Italia il grano dà vita a mille tipi di pane, paste, a una teoria di ricette interminabile. Gli chef sui loro menu scrivono che le orecchiette o i tagliolini sono fatti con grano Tumminia o Senatore Cappelli, con farro Monococco o grano Khorasan. E ti raccontano le differenze, comunicano la distinzione. E la fanno pagare. Qualcuno dunque lo fa e su questo si costruisce una microeconomia. Altri parlano di "speciality", senza rendersi conto di quanto ridicolo sia parlare di qualcosa già in atto e di cui non si conoscono i connotati. E come si fa, nelle stanze romane di ministeri e organizzazioni a far sì che la mano destra (quella che semina e raccoglie), sappia cosa fa la sinistra (che trasforma e cucina)?
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