Darya sfida il maschilismo iraniano. E noi non l'aiutiamo
mercoledì 7 giugno 2017
Il luogo dove si svolgono i fatti è il Palasport di Pesaro, sede di una tappa della World League di pallavolo. In campo le nazionali di Italia e Iran. Già, quell'Iran che ormai da alcuni anni è protagonista della scena pallavolistica internazionale, grazie alla sua squadra maschile. È una partita di pallavolo: clima disteso, belle azioni di gioco, famiglie e tanti bambini sugli spalti. In sostanza un'oasi di sicurezza, anche se oggi ogni assembramento di persone sembra essere minaccioso e preoccupante.
Il momento più importante della partita, tuttavia, non si svolge in campo. Non è una battuta, un muro o una bella difesa. Succede che dietro al seggiolone dell'arbitro, in una posizione spesso inquadrata dalle telecamere, siano sedute un gruppo di persone che indossano una maglietta bianca con una scritta non facilmente leggibile. Questo gruppo è capitanato da una donna sorridente, che si scoprirà essere una dentista quarantaduenne, Darya Safai. Il gruppo applaude entusiasta le belle azioni di entrambe le squadre, come spesso accade nella pallavolo, riservando un calore speciale ai punti messi a segno dai propri beniamini, gli atleti iraniani. A un certo punto, però, compare uno striscione che chiarisce il significato di quelle magliette riprendendone, in grande, la stessa scritta: «Let Iranian Women Enter Their Stadiums» ovvero «Lasciate che le donne iraniane entrino nei loro stadi».
Darya Safai è un'attivista dei diritti umani che, dopo aver passato un po' di guai e di mesi in carcere alla fine degli anni 90 in Iran, si è trasferita in Belgio e ha continuato a combattere la sua battaglia di civiltà. Ha mostrato quello striscione durante le partite di pallavolo della nazionale iraniana ai Giochi Olimpici di Rio, nell'estate 2016. Sempre lo stesso, civilissimo, messaggio: «Lasciate che le donne iraniane entrino nei loro stadi». Già, perché in Iran le donne non possono davvero entrare negli stadi e nei palasport. Ve lo dico con cognizione di causa, avendo avuto modo, alla guida della nostra nazionale di pallavolo, di disputare il 20 giugno 2014 una partita nel monumentale Palasport Azadi di Teheran, strapieno di gente, ma rigorosamente senza una donna fra i tifosi. Anzi, a completare il paradosso, in realtà una mezza dozzina di donne c'erano: tutte giornaliste o fotografe, evidentemente impossibilitate a raccontare la realtà.
Quella partita, costò una condanna di anno di carcere a Ghoncheh Ghavami, arrestata all'esterno del Palasport per aver tentato di assistere all'incontro che ci vedeva protagonisti in campo. In quell'occasione, io e molti atleti della mia squadra, toccati da quella vicenda, decidemmo di schierarci, registrando una serie di video-messaggi che volevano essere un segnale, per quel poco in nostro potere, non solo di solidarietà, ma di invito alla federazione internazionale a "forzare" l'Iran a questo passo di civiltà.
Dopo quell'episodio sembrò esservi un'apertura, smentita, pochi mesi dopo, dal ministero dello Sport iraniano. Poi di nuovo il silenzio, fino alla comparsa di quello striscione ai Giochi di Rio e pochi giorni fa a Pesaro, visto che la copertura televisiva dell'evento avrebbe portato le immagini anche in Iran. Fatto evidentemente imbarazzante per un supervisor della Federazione Internazionale con il coraggio di don Abbondio, che ha richiesto l'intervento delle forze dell'ordine.
Prima domanda, banale: può un supervisor di una federazione sportiva internazionale "pretendere" un intervento delle forze dell'ordine sul nostro territorio? In ogni caso, le forze dell'ordine sono intervenute e... che tristezza vedere quella donna circondata, che tristezza in quei ripetuti tentativi di chiederle di riporre quello striscione, inascoltati, certo, ma sempre con un sorriso e senza nessun tipo di violenza, maleducazione, arroganza. Che tristezza vederla sollevata di peso e trascinata fuori a forza. Che tristezza vedere quelle immagini fare il giro del web. E che tristezza il successivo, assordante, silenzio. Assenza di voci, di opinioni. Che tristezza e che occasione persa per dimostrare come, in un mondo privilegiato come quello sportivo, i protagonisti (tecnici, atleti o dirigenti che siano) possano e sappiano esprimere la loro idea riguardo un certo modo di stare al mondo.
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