La finestra sul cortile è una magistrale lezione di punto di vista, un amoroso omaggio al cinema come arte del guardare, un assoluto capolavoro – lo stesso Hitchcock lo sapeva bene. L’avvilito protagonista (James Stewart) costretto da una gamba ingessata a vivere nel chiuso di una stanza, lui fotoreporter avvezzo a girare per il mondo, cerca distrazione spiando le vite che si svolgono dietro le finestre di fronte alla sua, intanto costringendo lo spettatore a identificarsi in modo ininterrotto con ciò che lui vede. Tratta da un racconto, la trama imbastita da Hitchcock è mozzafiato in virtù di sole immagini, secondo uno schema in cui i dialoghi sono giusto “rumori in mezzo agli altri” (così il principio registico trasmesso all’intervistatore e formidabile interlocutore Truffaut). Il film venne definito «orribile» e Hitchcock accusato di «voyeurismo» da una nota critica cinematografica britannica, convinta che i teleobbiettivi e gli zoom usati da James Stewart fossero invadenti in modo riprovevole. Hitchcock trovò come controbattere che «voyeur» lo siamo tutti: il mondo visto dalla finestra sul cortile altro non è che la vita nelle innumerevoli possibilità del suo scorrere, legare destini, spezzarli. E l’occhio che la spia è umano, è il punto di vista di tutti noi, voyeur nostro malgrado.
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