L'Organizzazione delle Nazioni Unite ha scommesso, nel tracciare gli obiettivi di sviluppo per il nuovo millennio, sulla creazione di un nuovo concetto: la sostenibilità culturale. Già conoscevamo le nozioni di sostenibilità economica o ambientale; ora emerge questa nuova categoria a ricordarci che tanto il patrimonio culturale di ogni comunità umana quanto le sue industrie culturali e creative, come le sue infrastrutture e pratiche culturali, sono ossature strategiche per il presente e per le generazioni a venire. Si corre a volte il rischio di pensare che la cultura sia un lusso, utile nei tempi in cui ci possiamo permettere di più, ma al quale si può rinunciare nei periodi di difficoltà. Ora, la cultura non è un lusso: è una necessità primaria. Ha il carattere di quegli elementi in assenza dei quali la vita sfiorisce. Ed è precisamente nei momenti di scarsezza e di crisi, sia essa finanziaria, o di identità e senso come questa che oggi, in grande misura, l'Occidente vive, che la cultura deve essere vista come bussola e motore di sviluppo. L'attività culturale, nella pluralità dei suoi linguaggi, deve essere apprezzata nel suo fondamentale ruolo umano, sociale e civilizzatore. Perché parlare dell'importanza della cultura? La risposta non può essere che una sola: scommettere sulla cultura è scommettere sulla vita, la vita di ciascuno e di tutti. È investire in ciò che essa possiede di più profondo e visibile, di più silenzioso e condivisibile, di più storico e utopico, di più personale e comune. Tutti viviamo nella e della cultura. Nella molteplicità dei suoi linguaggi, essa è il nostro habitat permanente. È il nostro osservatorio e laboratorio; è il nostro dizionario e, al tempo stesso, il bloc-notes di ciò che emerge giorno per giorno e che ancora non è stato detto in nessuna lingua; è la nostra identità irriducibile e la nostra forma di apertura agli altri. Così ricordava la scrittrice Sophia de Mello Breyner Andresen: «Anche se non parla che di pietre o di brezze, l'opera dell'artista (e, in questo senso, la produzione culturale) viene sempre a dirci questo: che non siamo animali costretti alla lotta per la sopravvivenza, ma che siamo, per diritto naturale, eredi della libertà e della dignità dell'essere». Non di solo pane vive l'uomo: avremo sempre necessità di cibi di altra natura. Accanto a quel che che sembra strettamente necessario alla sopravvivenza dobbiamo mettere ciò che dialoga con la fame e la sete del cuore, senza cui potremmo anche vivere ma non essere noi stessi. Accanto all'immediatamente utile, dobbiamo lasciare spazio a quanto appare inutile, come consiglia il poeta cinese Li Bai: «Vendi uno dei tuoi pani/ e comprati un giglio». La cultura non è un mezzo per accedere a un codice, a una grammatica, e, loro tramite, a un patrimonio di informazioni o intrattenimenti. La cultura ci consente di entrare in noi stessi. È una finestra e al tempo stesso uno specchio. Uno dei pericoli contemporanei è la trasformazione della cultura in industria dell'intrattenimento, traboccante di prodotti di pronto e sonnambulo consumo, catturata dal semplicismo dei modelli. La cultura degna di questo nome è invece quella che dialoga con i grandi bisogni della vita e incessantemente ci apre alla profondità e alla complessità del reale. Una delle più belle parabole sulla cultura che io conosca l'ho letta in un libro di George Steiner. Nell'Unione Sovietica di Breznev un'insegnante d'inglese era finita in carcere – senza luce, senza carta né matita – in seguito a una denuncia assurda. La professoressa sapeva a memoria i più di trentamila versi del Don Juan di Lord Byron. Quando uscì di prigione aveva perso la vista, ma dettò la traduzione cui durante la reclusione si era dedicata mentalmente. Oggi è considerata la migliore traduzione russa di Byron.
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