In una freddissima e piovosa serata torinese di una primavera che non vuole saperne di arrivare, la Juventus ospita il Real Madrid in occasione della partita di andata del quarto di finale della Champions League. È il 3 aprile e sono appena passate le h. 22.00 quando succede qualcosa che cambierà un po' la storia.
Nell'area dalla Juventus arriva un cross dalla destra, Cristiano Ronaldo vola in cielo, spalle alla porta di Buffon. Il suo scarpino agguanta un pallone a oltre due metri e mezzo di altezza e il campione portoghese segna un goal in rovesciata che è, senza dubbio, un capolavoro. C'è chi sostiene (primo fra tutti Fabio Paratici, direttore sportivo della Juventus, dunque persona bene informata sui fatti) che «proprio in quel momento nacque la folle idea di portare Cristiano Ronaldo in bianconero».
Naturalmente i detrattori dell'operazione sostengono che la causa sia tutt'altra (motivi fiscali, alleanze di mercato, potere dei procuratori) ma, anche se il rischio dell'eccesso di romanticismo è dietro l'angolo, è bello pensare che quel capolavoro abbia strutturato la successiva realtà. Certamente chi era presente lì, tanto i tifosi quanto i dirigenti della Juventus, ha vissuto una specie di satori, di illuminazione. Uno di quei momenti da capogiro che vengono definiti Sindrome di Stendhal, che lo scrittore francese descriveva nel racconto del suo Grand Tour in Italia del 1817 dicendo: «Ero giunto a quel livello di emozione dove si incontrano le sensazioni celesti date dalle arti ed i sentimenti appassionati».
Non sapremo mai se, realmente, quella meravigliosa rovesciata abbia inciso nell'operazione che si sarebbe concretizzata tre mesi dopo, ma sappiamo con certezza che quel gesto tecnico, quella sera, è stato certamente un incontro fra arte e passione. Quella rovesciata è un'opera d'arte perché in essa compaiono tutte le componenti di un gesto artistico: abilità tecnica, costruita in anni di ossessione del lavoro da parte di un atleta/artista che ha maniacalmente curato il metodo, genialità che gli permette di voler andare a prendere in cielo un pallone che centomila altri calciatori, per quanto forti fisicamente e ben allenati come Ronaldo, avrebbero semplicemente fatto scorrere via, ispirazione che è un qualcosa che non appartiene all'atleta/artista, ma un fattore esterno che passa per un attimo e che chi produce capolavori è capace di cogliere, prima che inesorabilmente scappi via. Fattori che si sono allineati, quel 3 aprile scorso, in un istante e in un luogo fisico, fermando il tempo.
È di fronte a istanti così che arriva quell'incantamento che fa girare la testa e quasi fa star male, come succede in tutti i musei del mondo dove persone che non hanno nulla a che fare l'una con l'altra (di età e genere diverso, che arrivano da Paesi diversi, che hanno sensibilità culturali diverse) si trovano magneticamente catturate da una forza che si impossessa di chi sta guardando il capolavoro. Se tutti siamo in grado di "gestire" un buon libro, un bel quadro (o un bel gol), un capolavoro prende possesso di noi. È capace, nel solco della teoria dei neuroni a specchio, di tirar fuori il capolavoro che è in noi.
Mi piace pensare che tutto questo, quella sera piovosa di inizio aprile, sia successo e che, paradossalmente, proprio quella magnificenza vista dal vivo (e sportivamente subita) sia stata un elemento che ha fatto credere ai dirigenti della Juventus che quella folle idea sarebbe potuta diventare realtà.
In questi tempi in cui anche una caricatura della Gioconda con la maglia francese, twittata dal Museo del Louvre per festeggiare i neo campioni del mondo, diventa pretesto per vomitare arroganza e nazionalismo deturpato, ricordiamoci soltanto che gli artisti e i loro capolavori non sono fatti per dividere, ma per unire e non appartengono a nessun museo o club, ma a un'unica razza: quella umana.
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