venerdì 10 giugno 2016
«Da bambino volevo guarire i ciliegi quando rossi di frutti li vedevo feriti, la salute per me li aveva lasciati coi fiori di neve che avevan perduti. Per questo giurai che avrei fatto il dottore perché i ciliegi tornassero in fiore». Sulle note di De Andrè, lo stupore dei fiori di ciliegio. «Da noi la bellezza ha un non so che di d'essenzialmente solare e radioso, essa s'accompagna necessariamente ad una certa esigenza di fulgore; è il sorriso dell'essere» scriveva Fosco Maraini. Sì, la bellezza è ciò che ti fa arrendere, chiudere gli occhi, la potenza di una luce incontrastabile. Uno splendore oggettivo che fa ammutolire, insindacabile e perfetto. La cultura giapponese trova nei fiori di ciliegio un suo colore tipico: «Il giardino orientale è uomofoglia, solegioia, acquapensiero». Giardini in cui la bellezza è piuttosto un'arte, un'armonia che va costruita e conquistata pian piano. Seguendo la sapienza di una sensibilità che si traduce in forma, creazione, composizione. Che chiede cura e silenzio, lentezza e ritualità. Un approccio al mondo non sempre facile a noi occidentali. La nostra mente, mentre guarda il fiore, già pensa al rosso acceso e gustoso del frutto. Occorre un medico d'Oriente che ci aiuti ad assorbire l'estasi e ci insegni a indugiare sui fiori.
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