I due fratellini si rubavano il cibo dalla bocca. La madre allora schiaffeggiò il più grande e lo gettò a terra, nella polvere. Piangeva, la donna. Non ce la faceva più, era sola e non aveva cibo a sufficienza per i suoi figli. Una mamma d'Africa. Un grumo di polenta di sorgo, smorta come latte annacquato, insipida come aria, sfuggito alla lite, cadde al suolo e si mischiò a fango e foglie secche. Una mano più veloce lo raccolse e una bocca vorace se ne approfittò. Nuda fame.È sui volti dei suoi figli che si disegna il destino di un Paese. Africa equatoriale. Era il Sudan del XX secolo, ma poteva essere l'Etiopia o l'Angola. Paese otto volte l'Italia, logorato da una lunga guerra che affondava le sue radici avvelenate ancora agli anni Cinquanta e alle indegne conseguenze dello sfruttamento coloniale, schiavitù compresa. Nord arabo musulmano contro Sud nero africano, animista, cristiano. E tanto petrolio sotto i piedi. Negli ultimi sedici anni di questa guerra e conseguenti, devastanti carestie, alla vigilia del nostro Terzo millennio, si accatastano altri 2 milioni di morti e 4 milioni di sfollati.Poi, finalmente, nel 2005 la pace, ed ecco che si realizza il sogno, nel 2011, di un referendum per l'indipendenza del Sud Sudan. Dura poco. Guarda caso, nelle regioni petrolifere del nuovo Stato presto la pace scivola, questa volta, nel pantano del tribalismo africano. Dinka, Nuer, Shilluk, Acholi. Violenze, stupri, omicidi, razzie e abusi d'ogni vergogna deliberatamente si riversano sui civili. Ancora carestie e la guerra torna strisciante come la vipera del deserto. Poco distante dai due fratelli affamati, seduta a terra, c'era anche la piccola Martha, quel giorno. Senza cibo e senza una gamba. Per una stupida caduta, conseguenza di un gioco, gli avevano amputato quella sinistra perché nel villaggio non c'era né un dottore, né medicine. Ma la cancrena sì. Intanto che carichi d'armi, di provenienza occidentale, sui cargo di vecchi «Antonov» volavano sulle teste di questo mondo di lacrime che faceva litigare i fratelli e inchiodava le loro madri, spesso vedove, alla croce della passione.Marial Lou si chiamava quel luogo. Un punto sperduto su una carta geografica del Sudan meridionale, un vago e solitario villaggio di capanne, dove il ratta-ta-ta dei mitra faceva da colonna sonora alle notti buie come la pece, rischiarate da un modesto braciere, sotto un cielo di miliardi di stelle e la paura delle imboscate.Chissà dove oggi si trova quel bambino, se ancora vivo, il cui nome era scritto su una fascetta stretta al polso magro come un osso di pollo. Si chiamava «319». Un numero per una testolina tuffata dentro una zucca svuotata, utilizzata come ciotola. Se ne stava seduto a terra e, come un cagnolino senza pelo, lappava un budino liquido, giallo. Un integratore energetico, distribuito dal personale di una Organizzazione non governativa straniera. Dove sarà oggi, venti anni dopo, quella vita? Forse dopo avere attraversato un deserto per approdare di qua dal Mediterraneo, qui in mezzo a noi, che ancora ci chiediamo cosa fare dell'Africa?Nel 1960, quando l'Africa si liberava dal colonialismo, era un continente autosufficiente, produceva cibo in abbondanza e lo esportava. Non c'erano guerre tribali e non esistevano profughi disperati. L'Africa aveva raggiunto livelli di sviluppo al pari di altri Paesi asiatici che oggi sono protagonisti assoluti nello sviluppo tecnologico.Nel 1960 il presidente americano J.F. Kennedy, parlando alle Nazioni unite suggeriva, dando avvio al «Decennio dello sviluppo», di venire a capo entro 10 anni della miseria e della povertà nel mondo. Nel frattempo dove siamo andati?
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