Ritrovarsi a essere un senzatetto è spaventosamente facile. Gli ingredienti sono più o meno gli stessi, e nemmeno devono essere presenti tutti: povertà, erosione dei vincoli familiari, emigrazione, vulnerabilità sociale, ferite psichiche, il peso insostenibile di una devastante sventura, dipendenze estreme, solitudine e abbandono. Venire via dalla strada, invece, è un processo lento e molto impegnativo di ricostruzione, sul quale non deve investire solo l’interessato, ma la comunità. In verità si arriva alla strada perché, a un dato istante della vita, ci siamo scoperti completamente soli. Imprigionati in una solitudine che chi guarda da fuori può immaginare solo con molto sforzo. E si viene via dalla strada con un processo inverso: d’un tratto ci vediamo accompagnati e sostenuti da un esercizio di fiducia che qualcuno ha acceso in noi. E che diventa il necessario trampolino per un paziente lavoro personale di speranza. Chiaramente la responsabilità prioritaria incombe alle politiche dello Stato: non possiamo dimenticare che la qualità di una società democratica si misura da come vengono trattati i più vulnerabili. Ma c’è anche una responsabilità in capo a ognuno di noi. A cominciare dal prendere coscienza di ciò che significa vivere in una società dei consumi e dello spreco. Suor Emmanuelle, che visse servendo i più poveri tra i poveri in Egitto, diceva: «Rinuncia alle cose inutili e condividi».
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