Verso la fine degli anni Trenta accade qualcosa di nuovo nella mente e di conseguenza nella produzione di Walt Disney. Dopo avere inventato le sue favole, cioè dopo aver generato personaggi non più disposti a uscire di scena, Disney, con la maturità di un classico, si volse ai classici, e decise di riscrivere le grandi fiabe dell’umanità, le fiabe e quelle opere narrative naturalmente magiche quanto metafisiche, pensiamo al Racconto di Natale di Charles Dickens, protagonista un prodigioso Paperone (e Scrooge, il protagonista del romanzo, Disney sin dall’inizio battezzò Paperone). Decise di rileggere una tradizione dell’anima, il mondo di Andersen, Perrault, Grimm, Le mille e una notte, accanto ai romanzi intrisi di avventura e sogno, il già citato Racconto di Natale, il Libro della giungla, l’epopea di Robin Hood. Un’intuizione fulminante: narrare col linguaggio del cartone animato i classici dell’immaginazione e del sogno di animazione, se tutta la fiaba, come la conosciamo, è il mondo della metamorfosi, del divenire, dell’animazione degli oggetti e della presenza di un’anima universale che soffia negli umani quanto nelle cerve, nei lupi, nelle brocche, nelle fontane, nelle rane che diventano principesse e nelle principesse che diventano rane: la fiaba era il cartone animato in nuce.
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