Il bomber inglese Gary Lineker una volta ha detto: «Il calcio è un gioco semplice. Si gioca undici contro undici e alla fine vincono i tedeschi». Teorema che non fa una piega, specie se appiccicato a una figurina esemplare come quella del tedesco Paul Breitner. Il primo giocatore straniero di cui la mia memoria di cuoio ha preso coscienza, al punto da emularlo, nell'arrocciamento del calzettone sopra alla caviglia e nello spirito di dedizione alla squadra. La sua in campo è stata una vita da mediano, lavorando più di Oriali e con un piglio marxista, sempre a difesa del proletariato. «Le basse forze, i magazzinieri», amate e difese dal napoletano Totonno Juliano, per Breitner erano gli operai metallurgici della sua Baviera. Da maoista li sosteneva prima di tutto ideologicamente e poi anche in marchi, ridistribuendo al popolo delle tute blu i milioni guadagnati al Bayern Monaco e al Real Madrid nel decennio che portava più veloce della sua corsa agli edonistici anni 80. Nel mezzo, il dissidente Paul diventava campione del mondo nel '74, castigando l'Olanda di Cruijff, in forza a quella Germania in cui «Müller tutto realizzava» mentre «Breitner tutto risolveva». Si è mosso sempre in direzione ostinata e contraria Paul il rosso, o il «der afro» come lo apostrofavano i suoi destrorsi detrattori che ha sempre spiazzato, fino all'ultima veritiera confessione: «Sono imparentato con papa Ratzinger».
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