Nel 2008, a cinque anni dall’inizio della guerra in Iraq, il premio Nobel per l’economia 2001 Joseph Stiglitz (e dal 2003 membro della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali) pubblicò insieme alla docente di Harward Linda Bilmes uno studio sui costi “diretti”, per gli Stati Uniti, della guerra in Iraq. Un conto che, quindi, non comprendeva i costi sociali interni (sanitari, pensionistici e assistenziali destinati ai reduci e alle loro famiglie), e che ammontava a tremila miliardi di dollari. Una cifra spaventosa, anche difficile da immaginare. Lo studio di Stiglitz e Bilmes era una critica diretta al presidente Usa George W. Bush e al suo vice Dick Cheney (e indirettamente anche a Condoleeza Rice, Consigliere per la Sicurezza nazionale nel primo mandato Bush, e Segretario di Stato nel secondo), accusati di aver mentito su tutti i fronti a proposito della guerra, su motivazioni, armi di distruzione di massa, costi. Dodici anni dopo quello studio, nel 2020, il Watson Institute, che fa capo alla Brown University del Rhode Island, ha ricalcolato i costi, sempre per gli Stati Uniti, dei vent’anni di “guerra al terrorismo” in seguito agli attentati dell’11 settembre. Che arrivano a toccare i 6,4 trilioni di dollari. 6.400 miliardi, una cifra ancora più spaventosa. E poi ci sono ancora da aggiungere le spese della Nato, e quelle delle singole nazioni. E le insopportabili restrizioni del diritto alla privacy in nome della sicurezza. E come ovvio i costi in vite umane, semplicemente incalcolabili.
Se consideriamo che in tutto questo il terrorismo, lungi dall’essere sconfitto, è stato piuttosto implementato, e che tale spiegamento di risorse ha provocato un aumento esponenziale delle migrazioni; e se consideriamo anche che negli stessi vent’anni meno di un settimo di quella cifra è andata alla cooperazione internazionale per piani di sviluppo, credo sia del tutto lecito chiedersi a quale punto saremmo oggi se quei 6.400 miliardi di dollari fossero andati alla cooperazione. Se, invece che cianciare di impossibili blocchi navali o di “aiutiamoli a casa loro”, si fosse cioè lavorato sul serio, e investito di conseguenza, per assicurare alle persone in fuga dalla povertà e dalle guerre (la maggior parte delle quali non sarebbero neppure scoppiate) quel «diritto a non emigrare» che Papa Francesco è tornato a riaffermare qualche giorno fa, nel discorso rivolto ai partecipanti a un congresso sul tema delle migrazioni organizzato dalla Università Gregoriana.
Ma, mentre bisogna darsi da fare, per quell’obiettivo occorreranno decenni, e non sarà facile. Eppure non c’è scelta, visto che i risultati delle guerre sono quelli che abbiamo sotto gli occhi. E intanto? I migranti che oggi ci bussano alla porta, ha detto Bergoglio, «vanno accolti, accompagnati, promossi e integrati».
«La storia – ha aggiunto citando il suo Messaggio per la Giornata mondiale del Migrante e del Rifugiato – ci insegna che il contributo dei migranti e dei rifugiati è stato fondamentale per la crescita sociale ed economica delle nostre società. E lo è anche oggi. Il loro lavoro, la loro capacità di sacrificio, la loro giovinezza e il loro entusiasmo arricchiscono le comunità che li accolgono. Ma questo contributo potrebbe essere assai più grande se valorizzato e sostenuto attraverso programmi mirati. Si tratta di un potenziale enorme, pronto ad esprimersi, se solo gliene viene offerta la possibilità». Tutte le istituzioni educative, per questo, «sono chiamate ad essere luoghi di accoglienza, di protezione o accompagnamento, di promozione e integrazione per tutti, senza escludere nessuno».
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