Come si fa ad aggirare la retorica? C'è un modo per non essere retorici per descrivere l'arrivo in uno stadio stracolmo, e fuori un assedio di altre centomila persone, di una squadra intera di calciatori che stavano andando a giocare la partita più importante della storia del club, dentro a dei feretri, fasciati dalle bandiere bianco-verdi dei loro tifosi? C'è un modo per non essere retorici nel raccontare che tutto ciò succede sotto un diluvio universale, con l'acqua della pioggia che si mescola alle lacrime di bambini, di adulti, di anziani, di uomini, di donne? Quella del Chapecoense risuona come la tragedia perfetta, non c'è molto altro da aggiungere. Giovani e forti, uccisi sulla strada della battaglia più importante, senza neppure il privilegio di arrivare a poterla affrontare, quella battaglia.
Ci sono momenti di dolore collettivo che cambiano la storia di comunità. Il Brasile intero si fermò, nel maggio del 1994, e milioni di persone accolsero lungo le strade del Paese il feretro che riportava dall'Italia Ayrton Senna, leggendario pilota di Formula 1, ucciso da un muretto troppo vicino a una curva, nella pista di Imola. Furono cinquecentomila le persone che nel 1949 salutarono per sempre la squadra di calcio del Grande Torino, che per cinque volte di fila aveva vinto lo Scudetto e per cento partite era rimasta imbattuta nel suo stadio, il Filadelfia, caduta proprio come il Chapecoense in un incidente aereo sulla collina di Superga, quella che domina la città di Torino. Le salme uscivano a due a due da uno degli edifici più prestigiosi della città, Palazzo Madama, e si immergevano dentro a una folla immensa. La città di Torino contava circa seicentomila abitanti, dunque quasi tutti erano lì per strada, arrampicati sui monumenti, sui tram, sui tetti delle case.
Che cosa hanno in comune queste vicende, oltre a un dolore straziante, sordo e così fortemente condiviso? Probabilmente il fatto che sessantasette o ventidue anni fa, come oggi, la magnitudine dei grandi sportivi, come quella dei grandi artisti, è proporzionale alla loro capacità di far sognare la gente. «Muor giovane colui che al cielo è caro», scriveva il commediografo Menandro, tradotto e citato da Giacomo Leopardi nella sua poesia "Amore e Morte". Come Achille, che preferisce morire giovane ed "essere" per sempre, piuttosto che anziano, solitario, dimenticato.
Il giovane eroe preferisce dare la vita morendo sul campo, entrando così nella memoria collettiva, offrendo il proprio estremo sacrificio per rinsaldare l'unità del gruppo a cui appartiene, diventando leggenda. Nell'aristocrazia greca questo era un privilegio, spesso una scelta, una sorta di sfida al silenzio della morte. Sono cambiati i campi di gioco e certamente nei tre casi non c'è stata scelta alcuna. I giocatori del Grande Torino, quelli della Chapecoense o Ayrton Senna stavano rincorrendo nel pieno della loro gioventù i propri sogni, diventati tuttavia patrimonio di tutti. La loro morte, quel dolore collettivo, ci ha dimostrato ancora una volta come lo sport altro non sia che l'epica moderna, quella forma che, oggi come nell'antichità, narra le gesta di un eroe o di un popolo, mediante le quali si conserva e si tramanda la memoria, l'identità, di una comunità, di una civiltà, di una classe politica.
Già, perché domenica scorsa, giorno dei funerali della Chapecoense, era anche il quinto anniversario della scomparsa di Socrates, calciatore con il nome da filosofo, capace del più straordinario esperimento politico nel mondo dello sport: quella "Democrazia Corinthiana", splendida utopia di una squadra di calcio capace di vincere e allo stesso tempo di essere un modello politico per un Paese sfidato dalla dittatura. Socrates aveva espresso un desiderio: «Vorrei morire nel giorno in cui il Corinthias rivincerà il titolo». Successe proprio così, come nelle profezie che si auto-adempiono. Era il 4 dicembre del 2011, piansero tutti. Esattamente cinque anni dopo il Brasile ha pianto ancora, sotto un diluvio impensabile d'estate. Capita proprio così nelle leggende, nella mitologia, nell'epica.
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