Quante volte sarò stato alla stazione ferroviaria di Venezia-Mestre? I ricordi di questo luogo pulsante, cadenza del respiro italiano, si sovrappongono: da una parte la bellezza surreale della città lagunare, dove si dirigono turisti provenienti da ogni zona del mondo, dall’altra l’affollato crocevia per le metropoli settentrionali, con le banchine gremite di pendolari e studenti. Treni da prendere, automobili che mi aspettano all’uscita, corsi di formazione dai salesiani, biblioteche, scuole, appuntamenti, grandi e piccoli alberghi (dall’ultimo piano del Plaza lo spettacolo dei binari diretti verso l’Europa). L’intasata libreria della Giunti, semideserta in mezzo alla calca; il fornitissimo bar adiacente coi tavolini al centro della sala e due casse sempre attive; i sedili in ferro che punteggiano tutta l’area in perenne smistamento fra passeggeri che arrivano e altri pronti a ripartire con la prossima coincidenza. Diversi vagabondi che sostano tra la gente, cercando una specie di calore animale, fra i quali ricordo Abdel, immigrato marocchino. S’era avvicinato, in evidente stato di alterazione alcolica, mentre mangiavo un trancio di pizza, molti lo scansavano e quando lo invitai a sedersi ebbi io stesso la sensazione di essere come minimo disapprovato insieme a lui.
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