giovedì 30 gennaio 2020
Lo ha ricordato papa Francesco ricevendo i partecipanti alla plenaria della Congregazione per la Dottrina della Fede
Papa Francesco durante l'udienza ai membri della Comunità Abramo il 14 settembre 2019

Papa Francesco durante l'udienza ai membri della Comunità Abramo il 14 settembre 2019 - (Ansa/Vatican Media)

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La cultura dominante impone di considerare "vite indegne" le vite che non producono efficienza e utilità, ma una società può essere considerata civile solo se "riconosce il valore intangibile della vita umana". Lo ha ricordato papa Francesco ricevendo oggi i partecipanti alla plenaria della Congregazione per la Dottrina della Fede.

"Il contesto socio-culturale attuale sta progressivamente erodendo la consapevolezza riguardo a ciò che rende preziosa la vita umana", ha spiegato. "Essa sempre più spesso viene valutata in ragione della sua efficienza e utilità, al punto da considerare 'vite scartate' o 'vite indegne' quelle che non rispondono a tale criterio. In questa situazione di perdita degli autentici valori, vengono meno anche i doveri inderogabili della solidarietà e della fraternità umana e

In realtà, secondo Bergoglio, "una società merita la qualifica di 'civile' se sviluppa gli anticorpi contro la cultura dello scarto; se riconosce il valore intangibile della vita umana; se la solidarietà è fattivamente praticata e salvaguardata come fondamento della convivenza.

Semmai "attorno al malato occorre creare una vera e propria piattaforma umana di relazioni che, mentre favoriscono la cura
medica, aprano alla speranza, specialmente in quelle situazioni-limite in cui il male fisico si accompagna allo sconforto emotivo e all'angoscia spirituale".

"La vita umana, a motivo della sua destinazione eterna, conserva tutto il suo valore e tutta la sua dignità in qualsiasi condizione, anche di precarietà e fragilità, e come tale è sempre degna della massima considerazione", ha aggiunto il Pontefice, che poi ha parlato di hospice: "Penso a quanto bene fanno gli hospice per le cure palliative, dove i malati terminali vengono accompagnati con un qualificato sostegno medico, psicologico e spirituale, perché possano vivere con dignità, confortati dalla vicinanza delle persone care, la fase finale della loro vita terrena. Auspico che tali centri continuino ad essere luoghi nei quali si pratichi con impegno la "terapia della dignità", alimentando così l'amore e il rispetto per la vita". Perché "quando la malattia bussa alla porta della nostra vita, affiora sempre più in noi il bisogno di avere accanto qualcuno che ci guardi negli occhi, che ci tenga la mano, che manifesti la sua tenerezza e si prenda cura di noi, come il Buon Samaritano della parabola evangelica".

"Il tema della cura dei malati, nelle fasi critiche e terminali della vita, chiama in causa il compito della Chiesa di riscrivere la "grammatica" del farsi carico e del prendersi cura della persona sofferente. L'esempio del Buon Samaritano insegna che è necessario convertire lo sguardo del cuore, perché molte volte chi guarda non vede. Perché? Perché manca la compassione. Senza la compassione, chi guarda non rimane implicato in ciò che osserva e passa oltre; invece chi ha il cuore compassionevole viene toccato e coinvolto, si ferma e se ne prende cura. Attorno al malato occorre creare una vera e propria piattaforma umana di relazioni che, mentre favoriscono la cura medica, aprano alla speranza, specialmente in quelle situazioni-limite in cui il male fisico si accompagna allo sconforto emotivo e all'angoscia spirituale. L'approccio relazionale - e non meramente clinico - con il malato, considerato nella unicità e integralità della sua persona, impone il dovere di non abbandonare mai nessuno in presenza di mali inguaribili. La vita umana, a motivo della sua destinazione eterna, conserva tutto il suo valore e tutta la sua dignità in qualsiasi condizione, anche di precarietà e fragilità, e come tale è sempre degna della massima considerazione".

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