mercoledì 19 luglio 2023
A colloquio con la "signora dei deserti" che, nel 1979, coronò il suo sogno di bambina: esplorare l'Amazzonia
La famosa esploratrice Carla Perrotti nella sua casa in provincia di Milano

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Ci sono bambine che sognano di diventare ballerine classiche. Oppure astronaute. Lei invece vagheggiava di esplorare l’Amazzonia. Oggi Carla Perrotti bambina non lo è più e se si guarda alle spalle osserva una lunga serie di imprese che le hanno valso l’epiteto de “la signora dei deserti”. La prima e unica donna che ha attraversato in solitaria, tra il 1991 e il 2008, ben 5 deserti in quattro continenti (Ténéré e Kalahari in Africa, Salar de Uyuni in America Latina, Simpson in Australia e Taklimakan in Asia, quest’ultimo mai più esplorato per intero da nessuno), una vita intensa da documentarista e saggista (tre i libri pubblicati proprio sull’esperienza del deserto) ma soprattutto piena di avventure nei luoghi più remoti e inaccessibili della Terra, accanto a un marito, Oscar Perrotti, molto amato e precocemente scomparso nel 2013.

L'album dei ricordi di questa donna insieme avventurosa e tranquilla, coraggiosa e dolce, è ricchissimo e affascinante. Ma, rievocando per “Avvenire” la vacanza, il viaggio più bello della vita, Carla non ha dubbi: l’Amazzonia e quella serie di fortunate coincidenze che nel 1979 l’hanno portata a vivere per una lunga settimana accanto ad alcuni indios Aucas, una tribù isolata nell’Amazzonia ecuadoriana, mai venuta in contatto diretto prima d’allora con la civiltà occidentale. Lei, bionda ed esile ma dalla tempra d’acciaio, è stata la prima persona bianca – e la prima donna bianca! – che i 30 componenti della tribù avessero mai visto. «Io e mio marito Oscar eravamo alle Galapagos per girare un documentario. Desideravamo andare in Amazzonia, ma l’idea di trovarci in posti già contaminati dal turismo non ci soddisfaceva », racconta Carla, seduta nel salotto pieno di cimeli e di souvenir da tutto il pianeta, nel suo appartamento ampio e luminoso del villaggio di San Bovio, hinterland est di Milano. Fu un piccolo sotterfugio a portare lei e Oscar in mezzo alla giungla vergine: a Quito avevano conosciuto Samuel, che viveva in città perché era stato rapito da bambino con la madre dai bianchi, ma che conservava gelosamente la segretezza e dunque l’isolamento della sua tribù. « Non voleva portarci, era categorico. Ma dopo tante insistenze e qualche bicchiere strategicamente riempito, ha accettato…», racconta divertita l’esploratrice.

Ed è così che iniziò l’avventura della vita: a bordo di un piccolo velivolo, Samuel sorvolò l’insediamento lungo il fiume Cononaco, in Ecuador, in un punto che solo lui sapeva, ridusse l’altitudine e gettò il suo cappello. Era il segno convenuto: gli indios uscirono dalla foresta e sgomberarono una piccola pista, attrezzata negli anni precedenti per le esplorazioni minerarie, presto abbandonata e ora strategicamente occultata da tronchi e rami. In quell’area 25 anni prima altri indigeni avevano ucciso cinque missionari evangelici statunitensi. «L’aereo è ripartito e sette giorni dopo è tornato a prenderci. Per una settimana abbiamo vissuto completamente isolati dal resto del mondo, in una delle tre capanne che componevano l’insediamento. Abbiamo dormito nelle loro amache, ci siamo nutriti con gli stessi cibi e condiviso ogni momento della giornata. Oscar andava a caccia con loro, le armi erano cerbottane e lance. Io stavo con le donne e i bambini, mi guardavano come affascinanti, mi toccavano continuamente i capelli: senza che ci potessimo comprendere, chiusi nei nostri rispettivi linguaggi, mi hanno insegnato quali erbe utilizzare per i disturbi più comuni, come si cuociono le scimmie e i tucani al ritorno dalla caccia. Al mattino aspettavano il nostro risveglio seduti accanto a noi, spiando curiosi ogni nostro movimento. E io ricambiavo con lo stesso stupore e attrazione per il modo in cui vivevano la loro vita».

La realtà è stata all’altezza dei sogni di bambina di Carla, anzi l’ha perfino superata. Fuori da ogni contaminazione, gli Aucas hanno trasmesso alla “signora dei deserti” il fascino atavico di vivere in simbiosi con la natura, senza cognizione del tempo che passa, per l’intero ciclo della vita a contatto con le stesse poche decine di persone… « Non un paradiso, intendiamoci – continua Carla Perrotti –: gli indio erano pieni di patologie, come il polidattilismo (più dita del normale, ndr) per via degli accoppiamenti tra consanguinei. Se doleva un dente, il rimedio era spaccarselo con dei legnetti. La vita era durissima, sottomessa alle forze primordiali della natura, senza protezioni. Le persone si nutrivano di ciò che cacciavano con le proprie mani, si lavavano con l’acqua dei fiumi. Stando con loro, abbiamo capito che vigeva una spietata ma ineluttabile legge della selezione della specie: gli individui più fragili non potevano sopravvivere. Ho visto più di quello che avrei mai potuto immaginare, nemmeno nelle mie fantasticherie di bambina: anaconde nelle paludi, pappagalli che si accomodavano sulle spalle degli indio... Ho assaggiato la carne delle scimmie e di altre bestie mai conosciute prima».

Difficile fu lasciarsi alle spalle quella società primitiva che tanto interrogava il suo modo di vivere occidentale. Per esempio il rapporto con i figli: « I bambini erano di tutti; se ne prendeva cura l’intera tribù. Erano un tesoro e un patrimonio comune, come se capissero, in modo primordiale, che da lì, da quei bambini, passasse il futuro del loro mondo». E poi il senso del tempo, non misurato con orologi o scadenze ma con i ritmi naturali dell’universo. «Quando vivi queste esperienze ti poni domande su te stessa. Al ritorno c’è la parte più difficile: tutto quello che possiedi o che hai desiderato possedere sembra davvero superfluo. Con gli Aucas ho respirato la natura, mi sono immersa in essa, e quando sono rientrata in Italia tutto mi sembrava addomesticato. Quella genuinità, quella mancanza di inibizioni e di schemi mentali mi ha cambiata », racconta Carla Perrotti.

Emozioni intense accompagnano il ricordo di quel viaggio: « Lì, accanto a donne e bambini nelle capanne in mezzo alla foresta mi sono resa conto che sono loro ad essere nel giusto, non noi. Vivere nell’Amazzonia ha messo in discussione tutta la mia vita, ho capito che noi consumiamo in modo irresponsabile e irreversibile la risorse della natura, e i nostri eccessi li pagano tutti gli abitanti della terra». Una esperienza irripetibile: dieci anni dopo Carla e Oscar Perrotti tornarono nella stessa area, alla ricerca della stessa tribù. Ma gli indios di allora si erano spostati ancora più verso l’interno, e gli insediamenti raggiungibili stavano irreversibilmente diventando parchi giochi per i turisti. «Come nel 1979 i membri della tribù vivevano in una innocente nudità, 10 anni dopo li abbiamo trovati con bermuda e magliette Made in China. Le capanne di paglia erano state sostituite da baracche di lamiera». L’isolamento che proteggeva la verginità della tribù era scomparso. E il documentario, dieci anni dopo, si intitolò significativamente “Il mondo perduto degli Aucas”.

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