Dobbiamo imparare a convivere con la paura, ci ripetiamo. Il potenziale di offesa che la sua amplificazione porta alla nostra convivenza, del resto, lo abbiamo appena sperimentato nella sua concreta fisicità. Rimane il fatto che, se non vogliamo limitare la nostra reazione all’esercizio palliativo di qualche rituale consolatorio, o alla retorica bellicosa di qualche soluzione finale, c’è una paura più profonda che dobbiamo inseguire, stanare e portare al centro del ragionamento.
Questa paura è la paura di convivere. La determinazione a convivere con la paura, da sola, diventa anche assuefazione. E rimozione. Un bel momento, non cercheremo più di capire: ci limiteremo ad agire d’impulso, esprimeremo il nostro sdegno, colpiremo alla cieca, ci chiuderemo sempre più su noi stessi. Non andremo a fondo nel tentativo di comprendere ciò che ci appare, al momento, quasi incomprensibile, fino a intercettare con maggiore precisione il punto in cui le rotte dell’odio e della paura si incrociano e si avvitano l’una sull’altra.
Ne abbiamo pensate molte, fino ad ora: la povertà, l’esclusione, il fanatismo politico, il fondamentalismo religioso. Tutte le spiegazioni hanno il loro sacrosanto fazzoletto di verità. Ma la coperta rimane troppo corta in tutti i casi. E poi, sono spiegazioni che ci lasciano troppo fuori partita: non dicono ancora quasi niente su quello che possiamo – e dobbiamo – fare per disinnescare il circolo vizioso (e mortifero) della paura e dell’odio. La paura di convivere è contagiosa, come l’odio di quelli che non si sopportano. Nella stessa emancipata Europa la paura di convivere guadagna impensabilmente terreno, anche fra i popoli che la abitano già da secoli.
La paura di convivere ('non ce la potremo mai fare', 'siamo troppo diversi') apre varchi per lo scetticismo: lo scetticismo alimenta uno spirito rinunciatario, che poi esorcizza la propria crescente indifferenza per le pratiche reali della convivenza, consegnandola interamente alla burocrazia delle regole e regolette politicamente corrette (la cui frustrazione finisce per scaricarsi nelle scaramucce dei foulards delle donne e dei crocifissi da parete).
L’indifferenza crea distanza e abbandono: e ripaga, con gli interessi, in termini di rottura e risentimento. Gli odiatori di professione sono sempre pronti ad approfittarne, a ogni crocevia della storia: la paura non è solo un effetto ricercato dall’odio, è anche un terreno fertile per la sua crescita. Possiamo dunque fare qualcosa di più che convivere con la paura.
Possiamo inoltrarci più coraggiosamente (e con più amore: non sembri un paradosso) in tutti i territori del nostro habitat civile e religioso: in cui la paura della convivenza, con il suo corredo di pregiudiziale scetticismo e di potenziale risentimento, si chiude su se stessa. E diventa così terreno di coltura per l’aggressività e il gesto delirante. Non mettiamo muri alle frontiere civili e religiose. Ma non accettiamo più comunità, civili o religiose, murate nella loro inviolabile impenetrabilità alla reciprocità discorsiva, alla frequentazione familiare, alla cooperazione solidale.
La nostra determinazione a dare per scontata la reciprocità dell’essere ospitale, a offrirne i mezzi e a coltivarne i modi, deve apparire un presidio della convivenza stessa. Impariamo e insegniamo alle creature che nascono un sano disincanto nei confronti degli esseri umani di questo pianeta. Tutti i popoli, indistintamente, sono fatti di uomini, donne e bambini.
Questa condizione, con il suo corredo di vulnerabilità e di speranze, è infinitamente più decisiva di ogni altro identificatore: culturale, politico, religioso. La paura di convivere va attaccata con determinazione e vinta a tutto campo, fin dalla culla. Sotto la linea di galleggiamento di retoriche ripetitive e di politiche inerti, un numero incredibile di uomini e donne coraggiosi dissoda già in mille modi questo terreno, togliendo acqua, congiuntamente, alla paura e all’odio. Non sono loro che devono apprendere le formule della politica, ma la politica che deve sostituire la loro logica alla sua burocrazia. Si può fare molto di più, che convivere con la paura.