Avrà anche avuto convinzioni talvolta discutibili in materia di ortografia, ma Giuseppe Verdi aveva un talento indiscutibile per la letteratura. La comprendeva d’istinto, andando al cuore dei drammi di Shakespeare e battagliando con i librettisti per la sonorità di un verso. Il capolavoro di Verdi in materia di critica letteraria (sì, si può fare critica anche con la musica) è però il Requiem composto in memoria di Alessandro Manzoni ed eseguito ieri sera nel Duomo di Milano al termine delle commemorazioni per il 150° anniversario della morte del grande scrittore milanese. L’ultimo aggettivo è tutt’altro che superfluo, come ha ribadito il pre-sidente della Repubblica Sergio Mattarella nell’appassionato discorso pronunciato a Casa Manzoni.
«Non si potrebbe spiegare Manzoni senza Milano – ha sostenuto – e, credo che si possa dire, Milano senza Manzoni». Non è questione di orgoglio municipale, né tanto meno di campanilismo. Nel rapporto con la città natale, infatti, si dispiega la profonda drammaticità di questo «padre della patria» (sono ancora parole del Capo dello Stato) che ha saputo perseverare nella sua condizione di «cattolico integrale, ma mai integralista».
Per comprendere che cosa sia Milano per Manzoni è bene chiedere il parere di Renzo, che in città ci arriva due volte e in entrambe le occasioni si mette nei guai. Prima a causa della sommossa per il pane, poi per via del clima di sospetto scatenato dalla peste. Appena mette piede a Milano, Renzo rischia di essere scambiato per qualcuno altro, ossia di non essere più sé stesso. Preso per facinoroso, diventa un fuggiasco. Accusato di essere un untore, si traveste da monatto. Della sua amatissima Milano, insomma, Manzoni non sembra avere un’opinione troppo lusinghiera: è il luogo della violenza e dell’inganno, il territorio nel quale perde forza la distinzione tra sentimento «popolare» e deriva «populista», anch’essa opportunamente richiamata ieri da Mattarella. Manzoni ne aveva avuto conoscenza diretta nell’aprile del 1814, quando aveva assistito al linciaggio inflitto al ministro napoleonico Giuseppe Prina, episodio dal quale discende la descrizione della sommossa nei Promessi sposi. Ancora più severo rischia di apparire il giudizio se dal romanzo si passa alla Storia della Colonna infame, questo «capolavoro di letteratura civile», ha ricordato il Presidente della Repubblica, che ancora «ci ammonisce di quanto siano perniciosi gli umori delle folle anonime, i pregiudizi, gli stereotipi».
Il Manzoni celebrato ieri da Mattarella è dunque un intellettuale schiettamente politico, determinato a fare in modo che l’ingiustizia non abbia la meglio sulla giustizia. La testimonianza di fede nella Provvidenza culmina coerentemente nella difesa dell’essere umano «in quanto tale», naturalmente «portatore di dignità e di diritti», ha sintetizzato Mattarella, richiamando fra l’altro la netta condanna pronunciata da Manzoni nei confronti della schiavitù. Anche quando è realista in modo spietato (e il rispetto del «santo vero» resta il fondamento della poetica manzoniana), la coscienza politica non è mai rassegnata, mai pessimista. La Milano di Manzoni, come ogni altra città, non resta ostaggio della sopraffazione e del sopruso. Fa spazio alla speranza, si apre alla profezia, accoglie la salvezza. È il significato profondo di uno dei passi citati dal presidente, quello in cui padre Cristoforo fronteggia Don Rodrigo, è il segreto nascosto in quel « verrà un giorno…» che non è minaccia né vendetta, ma attesa di un compimento. Non c’è città, per quanto insanguinata, che non possa essere di nuovo benedetta. In piazza San Fedele, dove fu massacrato il ministro Prina, si trova la chiesa di cui Manzoni fu parrocchiano. E il primo edificio che Renzo scorge arrivando a Milano nel giorno di San Martino è proprio il Lazzaretto nel quale, un po’ di capitoli più avanti, ritroverà Lucia. Come la letteratura, ogni città riserva sempre sorprese a chi la frequenta. Manzoni lo sapeva, Verdi lo aveva intuito, noi non dobbiamo dimenticarlo.