Immigrati a scuola di italiano a Palermo (Reuters)
Se si dovessero dare i voti a come funziona in Italia la gestione dei migranti, la valutazione sarebbe semplice: 10 al soccorso, 6 all’accoglienza, 4 all’integrazione. Mentre nelle situazioni di emergenza, come il soccorso in mare, l’opera delle istituzioni e dei volontari (dalla Guardia costiera ai pescatori di Lampedusa) si è meritata il rispetto di tutta Europa, già la fase dell’accoglienza alterna luci e ombre, sovrastata com’è da una domanda massiccia a fronte di risorse organizzative scarse. Ma dove il sistema mostra la corda è l’integrazione, cioè quella fase nella gestione del fenomeno che dovrebbe iniziare con l’accoglienza e concludersi con l’inclusione del migrante che ne ha titolo.
Il problema è la scomparsa di canali d’ingresso regolari, che in questi giorni l’Europa si è finalmente impegnata a ripristinare. Fra i primi interessati a una nuova apertura e regolazione dell’immigrazione è proprio l’Italia. Concetto semplice e chiaro a tutti tranne che al populismo xenofobo, la cancellazione di fatto di una via legale all’emigrazione non significa che i flussi dal Sud del mondo si interrompono bensì che si moltiplicano e assumono una forma illegale. Di più, l’impossibilità di mettersi in fila per entrare in Europa, fa sì che quando a conclusione di un calvario attraverso il deserto e il mare riescono a raggiungere l’Italia, gli immigrati ricorrano in massa all’unica clausola in grado di garantire loro la presenza sul nostro territorio e quindi facciano richiesta di protezione internazionale. Con un record di 120mila domande nel 2016, l’Italia si è classificata al terzo posto nel mondo dopo la Germania e gli Stati Uniti per numero di richieste di protezione internazionale (fonte Ocse).
Come aveva denunciato l’Associazione nazionale magistrati, un anno fa l’intero sistema delle commissioni per i rifugiati era alle soglie del tracollo. Risorse inadeguate e procedure bizantine avevano portato l’iter di riconoscimento a 18 mesi in media (a fronte dei 6 della Germania), con costi rilevanti per le strutture di accoglienza, oltre che stress prolungati per i richiedenti stessi. Dopo un decennio di immigrazione declinata come richiesta d’asilo, i risultati erano i seguenti: su 90mila domande esaminate nel 2016, il 70% erano state respinte (fonte Ministero dell’Interno). Fino alla legge 46/2017 che ne ha disposto la semplificazione, la grande maggioranza dei 'diniegati' (coloro cioè la cui richiesta era stata respinta) faceva ricorso contro la decisione. Migliorata sul piano quantitativo, grazie alle misure legislative e organizzative adottate nell’ultimo anno (ad esempio è in atto un concorso per l’assunzione di 250 nuovi funzionari per le commissioni di valutazione), la situazione resta difficile sul piano qualitativo. Innanzitutto resta irrisolto il problema dei 'diniegati', pochissimi dei quali ottemperano all’obbligo di rientrare in patria e, privati anche dell’alternativa rappresentata dall’esodo verso altri Paesi europei, scompaiono nelle grandi città italiane e diventano potenziali reclute del lavoro nero e della malavita.
Gli episodi di violenza dell’ultimo mese, che a Rimini, a Roma, a Bergamo hanno visto come protagonisti persone di origine straniera, gravi in sé e amplificati da media e politici specializzati negli allarmi, richiedono di allargare il discorso al nodo accoglienza/integrazione. Con le oggettive difficoltà che deve affrontare, l’intero sistema di accoglienza ha sulle sue spalle un compito estremamente impegnativo, ma ineludibile: quello di trasmettere ai beneficiari (immigrati e richiedenti asilo) un modello di diritti e di doveri propri della cittadinanza, tra i quali emerge oggi in primo piano il 'diritto di avere dei doveri'. Bisogna passare dalle astrazioni della teoria e della politica all’esperienza pratica del lavoro effettuato tutti i giorni dalle strutture pubbliche e del Terzo settore che operano con gli immigrati per sapere che si tratta di un compito non facile. Infatti non è facile, ma è indispensabile, gestire le differenze culturali che prevedono per i beneficiari, orari, attività, comportamenti che necessariamente scandiscono le tappe del percorso d’integrazione. Come non è facile sopportare le aggressioni che cooperative e centri Sprar si sentono rivolgere sui social quando i destini individuali falliscono, con effetti drammatici sugli altri. Come pure non si risolvono i problemi ignorando o stigmatizzando le preoccupazioni dei cittadini (ma anche degli Enti locali e dello stesso Terzo settore) circa la sostenibilità dell’integrazione degli stranieri, oltre certi numeri e oltre le risorse date.
Per valorizzare il diritto di adempiere dei doveri è necessario passare dalla logica dell’assistenza, che è un rapporto da superiore a inferiore, a un rapporto di scambio, di reciprocità, che è un rapporto tra pari. Il permesso di soggiorno per ragioni umanitarie deve essere rilasciato non su basi impressionistiche, ma sulla base di una procedura certa, trasparente e soprattutto chiara agli interessati. Essa va attuata parallelamente alla procedura del riconoscimento della protezione internazionale che invece, fondandosi su criteri di titolarità del diritto, non riguarda i comportamenti manifestati dal richiedente. Invece questi ultimi sono importanti, mentre la prima cosa che oggi apprende il richiedente è che i suoi sforzi nell’integrarsi, ad esempio imparando la lingua italiana o partecipando alle attività volontarie, sono perfettamente irrilevanti ai fini della sua regolarizzazione. Personalmente abbiamo raccolto numerose testimonianze (ad esempio nei centri Sprar, ma la situazione è ancora più difficile nei Cara ecc.) da parte sia degli operatori, sia degli stessi beneficiari, sulla scarsa disponibilità a partecipare alle due precondizioni dell’integrazione (studiare l’italiano e imparare un mestiere) se poi non si avrà la possibilità di praticarle.
Tenendo distinta la valutazione del diritto alla protezione internazionale, una soluzione ragionevole può essere che ai 'diniegati', che abbiano dimostrato la loro disponibilità all’integrazione della società italiana, venga concesso un permesso di soggiorno a termine e soggetto a successiva valutazione, sul modello della 'Carta verde' americana. Il permesso verrebbe rilasciato valutando la disponibilità all’integrazione da parte del richiedente che abbia acquisito un insieme di crediti: apprendimento della lingua italiana, orientamento e formazione professionale, partecipazione volontaria ad attività locali di utilità sociale, rispetto delle norme e dei regolamenti. Il risultato sarebbe un permesso a crediti in grado di promuovere comportamenti pro-attivi da parte dell’interessato, una tappa fondamentale se vogliamo non escludere bensì includere persone che hanno bisogno di venire da noi e di cui noi abbiamo bisogno.
*Ordinario di Sociologia all’Università La Sapienza di Roma
Integrare con diritti e doveri
LA «NUOVA» LEGGE TEDESCA
La legge tedesca sull’integrazione dei migranti stranieri e dei rifugiati, l’Integrationgesetzt, approvata dal Bundestag il 7 luglio 2016, è stata presentata con lo slogan, «fördern und fordern» («incentivare e pretendere»). Appena arrivati in Germania, i profughi iniziano già nelle strutture di prima accoglienza a partecipare a corsi di tedesco e di formazione che facilitino l’ingresso nel mondo del lavoro, ma hanno anche un obbligo a partecipare alle misure per l’integrazione, ossia corsi di educazione civica e sul funzionamento dello Stato e della burocrazia. Chi si rifiuta subisce tagli ai sussidi. La legge ha poi eliminato un ostacolo rilevante per l’ingresso nel mondo del lavoro dei richiedenti asilo: per tre anni cade l’obbligo di assumere prima i disoccupati tedeschi o europei. Prevista anche una norma importante per le aziende che impiegano profughi come apprendisti: se la loro domanda di asilo dovesse essere respinta durante l’apprendistato lo Stato non potrà respingerli fino alla fine del periodo di formazione. Al termine dell’apprendistato potrebbero anche restare nel caso trovassero un posto di lavoro. Viceversa, se interromperanno la formazione o commetteranno un reato, la tutela decadrà immediatamente. (Vincenzo Savignano)
LA GREEN CARD AMERICANA
La 'mitica' Green Card, che concede il permesso di risiedere permanentemente negli Stati Uniti ma non il diritto di voto, è quasi automatica per i coniugi, vedovi, fidanzati e figli di cittadini americani, oltre che per i genitori e i fratelli e sorelle di cittadini statunitensi adulti (di almeno 21 anni). Ma può essere ottenuta grazie alla sponsorizzazione di un datore di lavoro, soprattutto se l’immigrato può dimostrare di avere 'abilità straordinarie' o di essere 'altamente qualificato'. Anche l’aver investito un milione di dollari in un’impresa che ha generato almeno 10 impieghi apre un percorso preferenziale nella domanda. Un profugo che ha ottenuto asilo politico da almeno un anno può fare domanda di Green card, che dura 2 o 10 anni a seconda dei casi e può essere rinnovata. Dopo averla ottenuta, un soggiorno di oltre un anno all’estero può portare alla sua perdita. (Elena Molinari)