I giovanissimi stupratori di gruppo del Parco verde di Caivano. Le baby gang delle periferie urbane o i bulletti nelle scuole, capaci di filmare e mandare sui social le violenze fatte ai compagni. E poi gli adolescenti assassini, per noia, per avidità o per rabbia. E le vedette dello spaccio assoldate da camorra o ‘ndrangheta. Sono talmente tante le facce di un fenomeno complesso come quello della devianza minorile, che darne una lettura inforcando gli occhiali delle relazioni di polizia sarebbe azzardato.
Tuttavia, a scorrere con attenzione le 82 pagine del nuovo rapporto della Direzione centrale di polizia criminale sui reati compiuti da minorenni dal 2010 al 2022, ci si accorge di quanto poco di “poliziottesco” abbiano alcune valutazioni in esso contenute. Pur partendo da numeri e statistiche, nel dossier infatti si prova a fornire un quadro del contesto in cui certi crimini continuano a maturare, fornendo a chi deve legiferare su una materia delicatissima riflessioni da tenere in conto.
Ora, in genere esiste uno iato fra la “sicurezza percepita” e quella reale, gonfiato spesso ad arte da titoloni di giornali e tg, capaci di presentare come “tendenza” quella che talvolta è solo una circostanza, un episodio grave ma non diffuso. In questo caso, invece, i dati del dossier (che attinge alle banche dati interforze di Polizia, Carabinieri e Guardia di Finanza) paiono confermare la percezione rispetto al gorgo di violenza in cui stanno precipitando molti giovani, italiani e stranieri. Denunce e arresti crescono. E se l’andamento degli abusi sessuali cresce di poco e quello degli omicidi scende lievemente, preoccupa l’inquietante impennata di rapine, estorsioni, lesioni, risse, percosse e minacce, compiuti da ragazzi e ragazze sui 16-17 anni.
Perché il malessere esistenziale di un adolescente finisce per imboccare la strada tortuosa della brutalità, della cattiveria, del reato solitario o di gruppo? Ecco, gli analisti della Polizia forniscono elementi utili a comprendere: l’adolescenza come fattore di rischio, aumentato se si vive in contesti «di deprivazione socio economica o in ambienti familiari disfunzionali »; «l’appartenenza a gang» coi loro riti d’iniziazione; il tasso di dispersione scolastica; e l’uso distorto dei social media, dove la spettacolarizzazione di un atto violento può indurre chi lo fa a «superare la paura della punizione». In più, lo spettro del Covid ha influito, con le sue angosce e restrizioni. Tutti tasselli, e altri se ne potrebbero aggiungere, di un mosaico di concause che non può e non deve lasciare tranquillo nessuno: famiglie, insegnanti, educatori, esponenti delle istituzioni, enti e associazioni impegnate nel sociale. In una fase in cui la politica si confronta in modo acceso sulle nuove misure per frenare la devianza giovanile (dalla stretta del decreto Caivano alle pulsioni giustizialiste di chi invoca l’abbassamento dell’età per l’imputabilità) dalle pieghe della relazione affiorano «chiavi di lettura» che possono essere utili «al decisore» per elaborare politiche e interventi di prevenzione più efficaci. Peraltro, uscendo da una visione solo repressiva, il dossier non dimentica il risanamento delle vite di chi ha sbagliato, raccogliendo le voci di minori in carcere e valorizzando strumenti come la giustizia riparativa.
Perché, ma questo a un’istituzione come la Polizia non si può chiedere di scriverlo, gli slogan sulla “tolleranza zero” e sulle “chiavi di cella da gettare” sono ingannevoli e fintamente rassicuranti. Se si vuole davvero lanciare un paracadute per frenare la corsa di una gioventù che nessuno vorrebbe “bruciata”, bisogna fare rete, ricostruire tessuti familiari, scolastici e sociali (e va dato atto alla premier Giorgia Meloni di averlo considerato, nell’insieme di interventi pensati per Caivano). Il rapporto della Polizia è ben più di una statistica, è un Sos, un bengala esploso in un cielo di tenebra. Invita ciascuno di noi a non restare sordo e cieco, a intercettare e a “curare” il malessere di migliaia di ragazzi, prima che generi altro odio e violenza.