25 aprile, Festa della Liberazione - Ansa
Il 25 Aprile rischia quest’anno di essere una festa più divisiva che mai. Con al governo una maggioranza di destra che vede tra le sue fila diversi esponenti dichiaratamente o (per motivi istituzionali) velatamente filofascisti, e con un Pd sempre più schiacciato su posizioni da sinistra radical-populista, la Festa della Liberazione rischia di diventare l’ennesima occasione per inutili battaglie ideologiche. Ed è un vero peccato, perché il 25 Aprile dovrebbe essere la festa di tutti coloro che si riconoscono nei valori della nostra bellissima Costituzione.
A vincere, però rischiano di essere una volta di più i revisionismi: quello di una certa destra, più arrogante e insidioso, e quello di certa sinistra, che tenta da decenni di strumentalizzare il 25 Aprile, utilizzandolo come clava contro gli avversari politici. Il revisionismo di destra afferma che tra il 1943 e il 1945 in Italia ci fu una guerra civile (e questo è vero) durante la quale furono commesse atrocità da entrambe le parti (e anche questo è vero). La conclusione è che dunque non ci sarebbe stata una parte giusta e una sbagliata: si sarebbe trattato di una carneficina fratricida, nella quale ci sarebbero stati torti e ragioni su entrambi i fronti. E questo è del tutto errato.
Per contro, il revisionismo di sinistra, ha sempre raccontato i partigiani come eroi senza macchia, che, sventolando bandiere quasi solo rosse, avrebbero combattuto con una totale consapevolezza della propria azione storica, liberando l’Italia da soli. Questa narrazione non rende certo ragione della verità storica: ci sono i fatti, e poi ci sono i miti. Chi racconta che i partigiani hanno liberato l’Italia da soli, dimenticando il decisivo contributo degli Alleati, è sullo stesso piano di chi crede davvero che, durante la guerra di Troia, scendeva in campo con gli Achei un eroe invincibile chiamato Achille, capace con un solo assalto di uccidere decine di nemici. Un mito, appunto, che esalta solo chi ama le favole.
Lo scopo dei revisionisti di destra è chiaro: confondere le acque per dimenticare e far dimenticare una militanza imbarazzante. Altrettanto chiaro è lo scopo dei revisionisti di sinistra: piantare bandierine e monopolizzare per creare un fronte dei buoni contro il fronte dei cattivi per affermare sé stessi in un’Italia a cui non riescono più a parlare e che faticano a vedere e ad ascoltare.
Come uscirne? Innanzitutto, bisogna essere chiari: la Resistenza, la lotta partigiana, la liberazione dell’Italia dal nazifascismo, sono un patrimonio storico da non dimenticare mai e che fonda il nostro stare insieme. È lapalissiano, ma di questi tempi vale la pena ribadirlo con forza. In secondo luogo, per liberarsi dalle strettoie dei contrapposti revisionismi, basterebbe ascoltare i testimoni dell’epoca. Nelle loro pagine potremmo riscoprire come la Resistenza sia fondamentale per ciascuno di noi e come possa essere un patrimonio vivo di tutti, in particolare dei giovani.
Testimoni come Italo Calvino. Nel suo romanzo Il sentiero dei nidi di ragno Calvino, che combatté nelle Brigate Garibaldi, descrive una resistenza antieroica: i partigiani sono poco efficaci militarmente, poco consapevoli del loro ruolo storico, divisi da rivalità e gelosie. Eppure, in una pagina memorabile, il partigiano Kim dice così: «Noi, nella storia, siamo dalla parte del riscatto, loro dall’altra». Lo dice commentando l’odio feroce e l’inconsapevolezza che accomuna partigiani e fascisti.
Ma mentre le azioni di quei partigiani, seppur inconsapevoli, servono «a costruire un’umanità senza più rabbia», i gesti dei fascisti «non fanno storia, non servono a liberare, ma a ripetere e a perpetuare quel furore e quell’odio, finché dopo altri venti o cento o mille anni si tornerebbe così, noi e loro, a combattere con lo stesso odio anonimo negli occhi e pur sempre, forse senza saperlo, noi per redimercene, loro per restarne schiavi».
Ci furono, dunque, partigiani eroi e partigiani colpevoli di crimini sul piano personale. Così come tra i repubblichini, sul piano personale, ci furono persone perbene e delinquenti. Ma un conto è il giudizio umano, etico, sul singolo, che non tocca alla politica. Un altro conto è il giudizio storico, che la politica e le istituzioni sono chiamate a dare: ci fu chi, oggettivamente, combatté per la liberazione e chi combatté, magari inconsapevolmente, dalla parte del totalitarismo, dalla parte di Hitler, dalla parte di chi negava all’uomo la libertà di pensiero e di parola e quindi la dignità. Su questo, non possono esserci fraintendimenti; per questo, è assolutamente impensabile discutere della possibilità di assegnare una medaglia al valore a chi militò tra le fila dalla Repubblica sociale italiana, il pezzo d’Italia dove s’insediò il regime nero dello Stato dell’ultimo Mussolini.
Un’altra autorevolissima voce è quella di Beppe Fenoglio. In Il partigiano Johnny, romanzo autobiografico, il protagonista milita inizialmente nelle Brigate Garibaldi; poi, in dissenso, passa ai badogliani, pronunciando la celebre frase «I’m in the wrong sector of the right side» («Sono nel settore sbagliato della parte giusta», ndr). Nell’ultimo inverno di guerra i partigiani delle Langhe sono sbandati e un mugnaio, amico di Johnny, gli dice: «Al disgelo gli Alleati si muoveranno e allora daranno il gran colpo, quello buono. E vinceranno senza di voi». Per questo invita Johnny a nascondersi, a rinunciare a combattere.
Ma Johnny rifiuta, categorico: «Mi sono impegnato a dir di no fino in fondo, e questa sarebbe una maniera di dir di sì», afferma. Il valore immortale della Resistenza è espresso in queste parole in modo mirabile. L’importanza fondamentale della Resistenza, più che militare, è civile e morale. Di resistenza c’è bisogno in ogni epoca. In ogni epoca, come Johnny, bisogna saper dire di no, forte e chiaro. No a chi vede i migranti come rifiuti di cui disfarsi, no a chi calpesta i diritti in nome del profitto, no a chi umilia la dignità delle persone con un assistenzialismo privo di progettualità, ma capace di catturare voti e consenso.
Eppure, il badogliano Fenoglio fu duramente attaccato dall’Unità. Nel 1952, quando uscì I ventitré giorni della città di Alba, altro suo capolavoro, nel quale si descrive ancora una volta una Resistenza antieroica, il giornale del Pci scrisse parole di fuoco: «Pubblicare e diffondere questo tipo di letteratura significa non soltanto falsare la realtà, significa sovvertire i valori umani e distruggere quel senso di dirittura e onestà morale di cui la tradizione letteraria può farsi vanto». Di tanto fu accusato dai revisionisti di sinistra dell’epoca un partigiano, un letterato di livello mondiale, l’uomo del no fino in fondo, colpevole di esaltare la dignità umana e non le ideologie di partito.
Ma la storia non mente. La Resistenza fu anche di sinistra, ma non solo di sinistra. Fu rossa, ma anche bianca. Fu comunista, ma anche cattolica. E furono resistenti anche quei seicentomila soldati del Regio Esercito Italiano che, rifiutandosi di aderire alla Repubblica di Salò, furono deportati, patendo tormenti e sevizie inenarrabili. Resistenti dimenticati, tra cui ci fu anche Giovannino Guareschi, padre di don Camillo e Peppone, fiero paladino della libertà e per questo anticomunista e ostile al fascismo. Guareschi, che nel dopoguerra i comunisti tentarono in ogni modo di censurare, non perdonandogli la sua fede politica monarchica.
Per questo, nell’attuale clima politico surriscaldato, sarebbe più che mai opportuno riscoprire la Resistenza come patrimonio di tutti coloro che si riconoscono nei valori costituzionali. Che bello sarebbe, ad esempio, se il 25 Aprile nelle piazze ci fossero più bandiere tricolori e meno bandiere di parte. Nessuno può negare che sia una ricchezza il fatto che alla Festa della Liberazione sventolino anche le bandiere dei partiti che in quei valori si riconoscono.
Ma, forse, sarebbe ancor più significativo e meno divisivo lasciare a casa le bandiere di partito e scendere in piazza tutti cantando l’Inno di Mameli e Bella ciao con la bandiera italiana in mano. Significherebbe, da parte di tutti, fare un passo indietro, per farne un’infinità avanti. Perché il Tricolore è di tutti, non solo di una parte, e aiuterebbe a rendere il 25 Aprile quella festa di tutti che dovrebbe essere. Il Tricolore nelle piazze il 25 Aprile sbugiarda chi vuol rendere un simbolo divisivo, addirittura in nome di un nazionalismo becero che nulla ha a che fare con la nostra Costituzione e la nostra identità. Ma il Tricolore ricorda anche e soprattutto che lo scopo della Resistenza fu cacciare i nazifascisti per amore dell’Italia, della libertà e della dignità delle persone. Viva la Resistenza di tutti.
Marco Erba è insegnante e scrittore