Ora che è stato raggiunto un accordo sul "mercato" del lavoro – faticoso, cruciale e ampio sebbene non del tutto condiviso per l’opposizione di un sindacato importante come la Cgil – non dobbiamo dimenticare una verità tanto evidente quanto trascurata: nella società contemporanea il centro o l’asse della dialettica sociale non è più il conflitto imprenditore-lavoratori, ma quello tra rendite e mondo dell’impresa. Chiunque guarda la distribuzione dei redditi e, soprattutto, quella della ricchezza e dei patrimoni, si accorge subito che la fetta di torta che si spartiscono imprenditori e lavoratori è sempre più piccola, poiché la parte del leone la fanno le grandi rendite finanziarie, ma anche quelle dei top manager, e quelle delle varie corporazioni e categorie protette.Uno dei dati che distingue l’era moderna da quella post-moderna (o della globalizzazione) è proprio lo spostamento dell’asse del potere economico. Oggi il grande capitale è in mano ai finanzieri e agli speculatori, che dominano non solo la finanza, ma l’intera economia. Che il conflitto fondamentale del capitalismo non fosse tra profitti e salari ma tra rentier e imprenditori, era la tesi del più influente economista liberale inglese della prima metà dell’Ottocento, David Ricardo. Questo grande economista dimostrò che era proprio la crescita della quota di valore economico assegnato alle rendite a caratterizzare il capitalismo, una crescita che andava a ridurre inesorabilmente la quota di valore aggiunto destinato all’impresa, e quindi allo sviluppo dell’economia. I lavoratori, invece, non potevano entrare in conflitto con le altre classi sociali semplicemente perché questa quota era fissata al livello della "sussistenza". Quella duplice intuizione di Ricardo è oggi tornata decisamente cruciale, quando osserviamo l’aumento esponenziale delle rendite, ma anche il progressivo ritorno dei salari dei lavoratori ai livelli di sussistenza, grazie al continuo aumento delle imposte indirette e dei tagli al welfare. Certo, in molte imprese capitalistiche, soprattutto quelle multinazionali, la proprietà appartiene sempre più alla finanza speculativa, che tratta il lavoratore spesso solo come un costo (e sempre meno come un investimento), una considerazione che dovrebbe portare, tra l’altro, a porre soglie tra tipologie di imprese non semplicemente sulla base al numero di lavoratori (15), ma anche sulla base della proprietà del capitale.Nei dibattiti di questi giorni attorno all’articolo 18 si ha l’impressione forte che si stia continuando a leggere il sistema socio-economico attuale a partire dal conflitto imprenditore-lavoratori, ancora visto come il fulcro dell’anatomia della società. Si perde così un’ottima occasione (la crisi) per rifocalizzare i grandi temi dell’economia e del lavoro nella nostra società. Oggi, il mondo dell’impresa soffre non tanto perché non riesce a licenziare i lavoratori fannulloni, ma soffre per un’eccessiva, abnorme tassazione del lavoro, e per una profonda crisi di speranza e di fiducia che non spinge la gente a intraprendere nuove attività economiche. Le imprese che vivono sui territori, e che non sono predatori, ma abitanti dei luoghi, sanno molto bene che i lavoratori prima di essere un costo sono il loro primo capitale, e che se non investono nel lavoro l’impresa non cresce e involve. C’è poi un secondo aspetto di cui si parla troppo poco. Il "mercato" del lavoro risente della cultura e della storia di un Paese. L’Italia ha una forte vocazione comunitaria e territoriale. Da noi il lavoro è stato sempre visto all’interno di un patto sociale più ampio, nel quale l’impresa non viene confinata in una "zona industriale" lontana e immune dalla "città", ma come un luogo del vivere, un brano di vita che ospita le stesse virtù e gli stessi vizi della società intera. Non dobbiamo inseguire il sogno di costruire aziende abitate dalle sole virtù (merito, efficienza, flessibilità), espellendo tutti i difetti ("fannulloni", fragilità, inefficienze) al di fuori della zona industriale. Fuori dove? Nella famiglia? Nello Stato? Dove? È questo il modello che il capitalismo contemporaneo sta provando e imponendo ai vari Paesi, che però, dove è applicato massicciamente, sta sempre più lasciando lungo la strada una fiumana di vinti, che sono fuori non solo dalla cittadella del lavoro, ma dalla città e dalla dignità. Le fragilità, i limiti, le imperfezioni ci sono nell’impresa perché ci sono nella famiglia, nelle comunità, nella scuola: e ci sono perché sono la condizione dell’umano, e quindi sono anche la condizione dell’economia finché la vogliamo tenere dentro il territorio dell’umano. L’accordo sul lavoro è importante: c’è tutta una serie di vizi da estirpare che si sono insediati nel mondo dell’impresa in questi decenni di mal governo, di mal società civile e di mal sindacato. Ma attenzione a non farsi vincere sotto la pressione dei mercati e degli spread dalla tentazione di una sfera economica pura, al riparo dalle scorie della storia, che è l’eterna tentazione del "perfettismo", che ha prodotto e produce luoghi invivibili e alla lunga disumani.