C’è un tratto che accomuna molti dei fenomeni di più sano disagio nei confronti del fisco e della politica: una crescente intolleranza e avversione verso l’iniquità. Gli esseri umani nel compiere le proprie scelte, anche quelle più tipicamente economiche, non seguono un freddo calcolo monetario costi-benefici, ma mettono in campo molte altre risorse emotive, simboliche, etiche, che ci portano ad esempio a 'punire' i comportamenti che leggiamo come ingiusti. Tutto ciò è molto evidente in tema fiscale.
Anche se tutta la comunicazione politica (compresi gli spot) cerca di convincerci che lo scopo del pagamento delle tasse è essenzialmente la produzione di beni pubblici (sanità, infrastrutture, sicurezza...) e di beni meritori (scuola, cultura, arte...) di cui poi tutti usufruiamo, in realtà la raccolta fiscale è solo in parte usata per la realizzazione di questi beni pubblici e meritori che poi 'ci ripagano' o dovrebbero ripagarci. Per cogliere, allora, correttamente e sostanzialmente la natura delle tasse occorre scomodare assieme a quelle del contratto anche la categoria e la grammatica del 'dono', una parola oggi purtroppo totalmente assente dal dibattito pubblico, assente anche perché l’abbiamo trattata troppo male in questi ultimi decenni.
Il dono è qui importante per diverse ragioni, e non solo perché una quota della raccolta fiscale viene destinata, ed effettivamente usata, a scopi redistributivi (prendere da chi più ha per dare a chi ha meno). Basti pensare al fatto, scritto nelle prime pagine di tutti i (buoni) manuali di Scienza della finanze, che l’aliquota media delle imposte è sempre più alta di quella equa, poiché c’è sempre una quota di cittadini che evade o elude le tasse, e una parte della pubblica amministrazione che spreca risorse – anche se va ricordato che la decenza di una società si misura da quanto esigua è questa quota di evasione e di spreco, e da quanto è sostenibile l’extra-tassa che per colpa loro pagano gli altri. Ma proprio a causa di questa sua natura che è anche di dono, il rapporto tra il cittadino, gli altri concittadini e le istituzioni è molto complesso.
Chi pratica e conosce i doni, cioè tutti noi, sa che il dono vero è un intreccio inestricabile di disinteresse e interesse. Quando una persona dona qualcosa esce dalla logica delle equivalenze e delle garanzie, è disinteressato; al tempo stesso, chi dona si attende un atto di reciprocità verso sé o verso altri, sebbene non lo pretenda, fosse anche solo un grazie: è quindi interessato a un rapporto, perché non è indifferente al che cosa produce il suo dono. E se e quando questo rapporto di reciprocità non c’è, il circuito del dono si interrompe. Il vero dono si compie sempre all’interno di una forma di patto, e quindi di reciprocità.
Quando, allora, per tornare al fisco, chi vuole genuinamente pagare le proprie tasse ha l’impressione, o la certezza, che molti suoi concittadini non le paghino (anche perché si parla tanto, troppo, di evasione), o che lo Stato non faccia la sua parte nel patto, o è tentato di non pagarle più (evasione), o fa di tutto per pagarne il meno possibile (elusione), o, nei casi peggiori, ha reazioni di sdegno che possono diventare anche forti, proprio perché essendo l’evasione anche una faccenda di dono e di reciprocità traditi, ci si comporta in una maniera molto simile a chi si sente ingannato da un amico importante – è emblematico che una volta, e forse ancora oggi, quando due fidanzati di lasciavano si restituivano i doni. Oggi gli italiani onesti, cioè la maggioranza, avvertono con forza questa assenza di reciprocità da parte del settore pubblico (nazionale, ma anche europeo). Ed è un fatto che va preso molto più sul serio di quanto non si stia facendo finora.
È serio e grave continuare ad assistere inermi allo spettacolo di parlamentari che annunciano tagli di stipendi, di privilegi e di seggi che non arrivano mai, o che – quando arrivano – sono talmente irrisori da diventare offensivi. Così come è umiliante e frustante continuare ad aumentare le imposte indirette alle famiglie o le imposte sulla prima casa, e nemmeno iniziare un dibattito sulle tasse ai grandi patrimoni e alla finanza.
Così come è stato infelice, anche se forse motivato da buone intenzioni, il dibattito interno all’Agenzia delle Entrate (e diventato subito di pubblico dominio) sull’opportunità di introdurre incentivi per chi denuncia i propri concittadini. Le forme di correzione civile che rafforzano il patto sociale sono sempre costose e rischiose per chi le pratica, poiché quel costo esprime la volontà di ripristinare un rapporto di amicizia civile che si è incrinato. Quando, invece, le denunce non costano nulla e anzi rendono qualche quattrino, non servono ad altro che a incattivire e avvelenare i rapporti di cittadinanza; poiché non si premiano le virtù, come sarebbe necessario e urgente fare, ma si incentiva chi denuncia i vizi. Due operazione che sono, civilmente, l’una l’inverso dell’altra.
Per questo bisognerebbe accogliere con grande simpatia l’idea di alcuni Comuni di occuparsi direttamente della riscossione delle imposte, in modo da rendere più sussidiario e comunitario anche questo momento della vita civile, nel quale il 'come' conta almeno quanto il 'che cosa'.
Non ritroveremo, infatti, un nuovo rapporto con il fisco e, in generale, con il pubblico attivando soltanto i registri delle sanzioni e degli incentivi, ma rimettendo il dono nel posto che gli è proprio, cioè al centro del patto sociale e della sfera pubblica, e liberandolo dai luoghi privati troppo angusti nei quali lo abbiamo confinato, poiché è sempre il dono che fonda e rifonda le comunità. La communitas: quel dono (munus) reciproco (cum) che è alla radice anche della scelta civile fondamentale di pagare le tasse.