Quando, tra fine novembre e inizio gennaio scorsi, le acque del Mekong si sono tinte di azzurro, alcuni hanno gridato al prodigio, ma in maggioranza si sono rivolti ai propri governi per chiedere ragione di un mutamento tanto radicale quanto repentino. Dopo giorni di timore e di speculazioni sulle ragioni e sulla reale portata del cambiamento, si è fatta strada la possibilità che si trattasse di un fenomeno dovuto all’eccezionale proliferare di micro-organismi in acque il cui deflusso è rallentato in modo crescente a causa dei molti sbarramenti artificiali. Successivamente, però, un inusuale proliferare di alghe verdi ha reso quasi impossibile la pesca, in particolare nel tratto confinario tra Thailandia e Laos. Anche questo è stato un fenomeno di breve durata e ben presto il fiume ha riacquistato la tradizionale tinta brunastra, in una stagione secca a sua volta eccezionale che lo ha visto diventare in alcuni tratti del suo corso quasi un rigagnolo.
Il fiume che attraversa il Sudest asiatico soffre per i cambiamenti del clima e le grandi opere realizzate dall’uomo A farne le spese le popolazioni più povere
Se i fenomeni sembrano essersi dissolti con la stessa rapidità con cui si erano manifestati, sono rimaste invece le preoccupazioni sulla salute del possente fiume del Sudest asiatico che è fonte di vita e benessere per 60 milioni di individui nei sei Paesi interessati dai 4.350 chilometri del suo corso dall’altopiano tibetano al delta vietnamita, sempre più segnato da cambiamenti climatici e attività umane. Il 2020 rischia di essere cruciale per il fiume, non solo per l’imprevedibilità delle condizioni atmosferiche, comunque negli anni recenti sfavorevoli al suo ecosistema, ma anche per il completamento negli ultimi mesi di due dighe per la produzione di elettricità, entrambe in territorio laotiano, in un’area pianeggiante dove quindi il flusso delle acque è già ridotto. La prima, quella di Xayaburi, da 1.285 megawatt, in funzione da ottobre 2019; la seconda, quella da 260 megawatt di Don Sahong, attivata a inizio gennaio. Vi sono concreti timori che i nuovi sbarramenti – i primi a essere costruiti lungo i 2.400 chilometri del corso medio e inferiore del fiume – blocchino il flusso dei sedimenti di cui abitualmente beneficiano fauna ittica e popolazioni rivierasche. Aggravando una situazione che esperti antiterrorismo sono arrivati ad assimilare, per le conseguenze potenziali, a quelle di un conflitto.
Pressioni politiche, soprattutto del colosso cinese su Paesi fortemente dipendenti dai suoi commerci, con aiuti e investimenti, hanno garantito nel tempo il 'via libera' alla progettazione delle 123 dighe in via di costruzione o previste in tutto il bacino del Mekong, che si aggiungeranno alle 11 già presenti sul corso principale con lo scopo primario di fornire elettricità a Cina e Thailandia. Lo scopo secondario – da propiziare dove necessario aprendo con la dinamite varchi tra le isole, le secche e le deviazioni naturali del fiume – è di favorire la navigazione commerciale e turistica. Forse anche il controllo militare di quella che sempre più Pechino considera come una propria via d’acqua nel cuore del Sudest asiatico. La tensione tra gli ambientalisti, che ritengono le centrali idroelettriche una minaccia concreta per il grande fiume, e i favorevoli allo sfruttamento energetico delle acque, che ritengono le dighe con i loro bacini utili a controllare il flusso delle acque e a conservare il prezioso elemento per i periodi siccitosi, oltre che fornire elettricità indispensabile, è alta e segnata anche da una profonda frustrazione.
Tuttavia, è chiaro da tempo che l’acqua che scorre senza più il tradizionale e spesso imprevedibile impeto non può più bastare a soddisfare tutte le necessità. I danni che ne conseguono sono già notevoli. Negli ultimi anni, la piovosità ridot- ta, conseguenza della persistenza del fenomeno atmosferico noto come El Niño, a sua volta dovuto al riscaldamento degli oceani, ha portato la disponibilità idrica media lungo il fiume al livello minimo da cent’anni, influendo sulla riproduzione e migrazione dei pesci, sull’aridità crescente dei campi e sulla salinità in accentuazione nel delta, area risicola tra le maggiori dell’Asia. Immensi i danni per la fauna ittica in quello che è secondo solo al bacino del Rio delle Amazzoni quanto a biodiversità, con 850 specie che oggi rischiano l’estinzione, inclusi il delfino dell’Irawaddy e il pesce-gatto gigante.
Una realtà già ora difficile, preoccupante nelle prospettive. I tributari del Mekong sono gradualmente sbarrati da dighe che ne limitano la navigazione fino a pochi anni fa possibile per tutta la loro lunghezza, ma come già visto riducono di molto l’estensione dei benefici depositi alluvionali e insieme rallentano lo scorrimento delle acque utile a garantire una profondità adeguata del letto del fiume. Nell’immenso delta, 40.477 chilometri quadrati di superficie in territorio vietnamita, dove il graduale collasso della cate- na alimentare sta riducendo tante famiglie alla pura sussistenza, già due dei nove bracci che sfociano nel Mar Cinese meridionale sono impraticabili e gli esperti suggeriscono che l’intero delta potrebbe prosciugarsi entro la fine del secolo. Il condizionale riguarda ovviamente il flusso del Mekong, perché l’intera area del delta, abitata da oltre 21 milioni di individui e che fornisce al Vietnam metà della produzione agricola, è anche minacciata dall’innalzamento del livello marino che mette a rischio di inondazione intere regioni, mentre una crescente salinità rende l’acqua disponibile inidonea all’irrigazione e alla vita di molte specie ittiche.
Quello che si prospetta – in un mix di responsabilità umane e cause naturali – è dunque uno scenario da incubo davanti all’esaurimento delle risorse fluviali prima, della progressione del mare poi, con la metropoli di Città di Ho Chi Minh (l’ex Saigon) a rischio di evacuazione dei suoi nove milioni di residenti attuali. Davanti alle sue necessità energetiche, il Vietnam sta comunque perseguendo la costruzione delle nove dighe sul Mekong necessarie per i nuovi impianti idroelettrici. Una situazione, quindi, che non chiama solo in causa l’iniziativa globale a tutela del pianeta, ma anzitutto le responsabilità locali. Troppi, tra politici, amministratori e imprenditori, continuano a vedere nel Mekong una fonte inesauribile di benefici nonostante gli allarmi ripetuti e lo scontro aspro con le organizzazioni ambientaliste impegnate a portare i governi davanti alla Corte penale internazionale dell’Aia.