Caro Avvenire,
davanti alle tante violenze che si consumano nel mondo mi domando perché in questa società globale che tutti ci accomuna nella vita e nella morte si tenti di cancellare ogni tipo di meditatio mortis. Il silenzio solenne o il religioso silenzio che dovrebbe regnare sovrano davanti ai morti viene spesso 'trafitto', e la sopraffazione di questo 'riposo' – a volte inconsapevole, altre no – invece di farsi memoria si trasforma in oblio. Forse, quell’ostentato «non abbiamo paura» dei vivi o dei sopravvissuti si trasformerebbe, attraverso la meditatio mortis, in un comportamento più responsabile che testimoni una fiduciosa speranza, soprattutto cristiana, che superi l’inevitabile naturale paura della morte. Cordialità
Pietro Ernesto Malgarini
Nelle ore tragiche dell’attentato a Barcellona come tutti alla tv ho assistito a lunghe 'dirette' dalle strade della città catalana, in cui, a causa del pochissimo tempo trascorso dalla strage, continuavano a scorrere sempre le stesse immagini, e a parlare, soffocati dalla paura, sempre gli stessi testimoni. Dopo mezz’ora che le stesse foto e le medesime parole si ripetevano concitatamente, ho rimpianto i tempi in cui i tg davano, di una tragedia, la secca notizia, prima che ci fosse il tempo di collegarsi con il luogo dell’evento. Perché quello sgranarsi di volti e parole ripetute aveva quasi l’effetto di banalizzare l’accaduto, di spiegarlo prematuramente, senza che fosse dato all’ascoltatore il tempo di assorbire interiormente ciò che veramente sulla Rambla era successo. Mi sembrava, quella profusione di parole, un volere dire l’indicibile, senza l’attimo di silenzio che ognuno di noi istintivamente sospende nel cuore, come una bolla di vuoto, alla notizia di una morte, o di tante morti, assieme. E tutte quelle parole premature e irrefrenabili mi parevano, come scrive il lettore, più una forma di oblio che di memoria, un moltiplicarsi di voci là dove forse avrei voluto una immagine da Barcellona, una sola, e un lungo silenzio. Ma forse questo mondo mediatico è incapace di silenzio, e risponde al terrore come può, con questa frammentata logorrea. Anche il ripetere ostentato quel «Non abbiamo paura» mi ha lasciato perplessa. Non abbiamo paura? Ma se basta una borsa dimenticata in una stazione, comprensibilmente, a creare il panico, ma se è impossibile difendere completamente tutte le nostre piazze, i nostri monumenti, i nostri stadi, come possiamo dire che non abbiamo paura? Io per i miei figli, quando li so in giro sul metrò di Milano o in treno o a manifestazioni di piazza, ho paura, eccome se ne ho. E non credo di essere diversa dalle altre madri, dagli altri padri. Noi abbiamo paura, dovremmo forse dire onestamente. Cerchiamo di andare avanti, ma ne abbiamo. Che cosa allora mi impedisce di paralizzarmi nell’angoscia, ogni mattina? Giacché non penso che i terroristi abbiano finito di uccidere, e temo che altri cadranno. Ciò che mi salva dalla paralisi è la fiducia – lo ammetto, certi giorni una fiducia tremante – nel disegno di Dio per ciascuno di noi, e per ciascuno dei nostri figli, disegno che esiste da sempre, e per ognuno. Certo, questo disegno può comprendere anche una morte violenta, ma perfino in questa tragica evenienza non sarà mai un caso cieco a governare le nostre vite. Solo in questa meditatio mortis – ma anche meditatio vitae – cristiana potrei, con uno sforzo di coraggio, dire «io non ho paura». Se questa fede però non c’è, le grandi, fiere e perfino belle folle che nelle piazze ripetono la stessa frase mi fanno pensare ai bambini nel buio: che parlano e cantano, per farsi coraggio.