Caro Avvenire,
domenica 24 settembre la città di Milano accoglieva con migliaia di persone il nuovo arcivescovo, monsignor Mario Delpini. Sabato 30 settembre la città si ritrovava radunata in festa per i nuovi diaconi, con una gran folla ad attenderli fuori dalla cattedrale dopo la cerimonia. Sabato 7 ottobre circa cinquemila giovani nel Duomo di Milano per la Redditio Symboli si incontravano con l’arcivescovo Delpini. Per una città frenetica, piena di tante occasioni di ogni tipo, in continuo fermento, che a volte viene descritta come una città in cui le relazioni sono difficili da costruire, questi eventi, questa partecipazione, questi gesti appaiono un miracolo della fede e un segno di speranza: che ricorda che anche in una metropoli multiculturale si può vivere la relazione sia con Dio sia con gli altri, a dispetto di tanti stereotipi che vorrebbero mettere in contrapposizione la modernità con la relazione. Ha proprio ragione l’arcivescovo di Milano che nella sua prima Messa in Duomo ha ricordato alla città: «Non disperate dell’umanità, dei giovani di oggi, della società così come è adesso e del suo futuro: Dio continua ad attrarre con il suo amore e a seminare in ogni uomo e in ogni donna la vocazione ad amare», e ancora, in un messaggio pieno di fiducia e contro ogni pessimismo e scetticismo: «Non c’è nessun luogo della terra, non c’è nessun tempo della storia, non c’è nessuna casa e nessuna strada dove non ci sia l’amore di Dio. La gloria di Dio riempie la terra perché ogni essere vivente è amato da Dio».
Luca e Paolo Tanduo Milano
«Non c’è nessuna casa e nessuna strada dove non ci sia l’amore di Dio». Che respiro antico e grande viene, ancora una volta nei secoli, dal Duomo di Milano. Un fiato di speranza e di fiducia in Dio, e negli uomini. Fiducia non illusoria, ma fondata nella certezza di Cristo presente nella Storia. Ogni mattina attorno alle otto osservo questa città frenetica che già dall’alba sferraglia nei suoi lunghi tram, mentre i camion della spazzatura passano lenti e ingoiano voraci, rumorosi, nelle bocche di metallo i resti del giorno prima. Già ai caselli delle autostrade si accodano, i fari accesi, le colonne delle auto dei pendolari. Dalle scale delle stazioni della metropolitana la gente sale e scende veloce, quasi di corsa. Sono studenti, manager, mamme con i bambini in braccio. Qui e là, però, qualcuno cammina più lento, come non avesse alcun ufficio che lo attende. Qualcuno invece – non pochi – sta fermo a un angolo e allunga una mano, a chiedere l’elemosina. Nei bar, frenetico è il battere dei filtri del caffè svuotati sul bancone, mentre la gente si accalca, zucchera, gira, beve e se ne va. È un motore, un grande congegno in movimento Milano nel primo mattino. E se per un giorno non corri anche tu la osservi un po’ intimorito: non ci sarà, nell’automatismo veloce degli ingranaggi del congegno, qualcuno che ne resta schiacciato? Probabilmente c’è. Lo si leggerà forse domani in cronache amare, di chi non ce l’ha fatta, di chi ha ceduto. Eppure il vescovo Mario, nuovo pastore della Chiesa ambrosiana, nelle sue prime parole in Duomo ha voluto esortarci a una grande speranza. «Non disperate... Dio continua ad attrarre con il suo amore e a seminare in ogni uomo e in ogni donna la vocazione ad amare». In ognuno di quelli che stanno nascendo oggi alla Mangiagalli, alla Macedonio Melloni, al Buzzi e in tutte le maternità cittadine, in tutti quei bambini piccolissimi dalla pelle di ogni colore, Dio, ci promette l’arcivescovo di Milano, pone la vocazione ad amare. Seme, orma, destino, incancellabile in ogni uomo. Ci fa bene, in questo tempo in cui allo scetticismo degli atei e dei lontani si affianca, fra alcuni cristiani, un nuovo pessimismo – quasi che la Chiesa e il mondo non potessero che sbagliare e finire – sentirci ripetere le frasi ascoltate in Duomo. È quello sguardo buono e fiducioso che appartiene al cristianesimo più profondo. Scriveva nel 1929 un futuro grande arcivescovo di Milano e Papa, Giovanni Battista Montini, che il cristiano guarda al mondo non come a un «abisso di perdizione» ma come a «un campo di messe». Come a un campo di messe, che sarà certo insidiato dalla gramigna, ma che darà frutto buono. È questa la eredità che assaporiamo in quel respiro dal Duomo, nelle parole del nuovo arcivescovo di Milano.