Anna, Bergamo
La sua lettera, gentile signora Anna, non è di quelle che tollerano parole di convenienza. Bella e aspra, esige risposte crude. Le offro la mia, senza fronzoli e senza iattanza, racchiudendola in un’affermazione che spero mi vorrà perdonare: il secolarismo vince in noi credenti quando ¿ magari inavvertitamente ¿ subentra come il vero discrimine, come criterio in base al quale bocciamo o promuoviamo, fossero anche le parole della Chiesa nostra madre. Quando cioè la nostra sintesi culturale la facciamo automaticamente con gli apriori secolaristi, pronti subito a giustificare quel che giustifica il mondo, pronti a trascurare ciò che il mondo trascura. E il giudizio intrinsecamente religioso perde qualunque fascino; non solo: perde in particolare ogni sua capacità di incidenza e di pertinenza. Prendiamo come esempio proprio ciò che ultimamente ha più urtato la sua sensibilità, ossia le parole di monsignor Migliore sul problema della discriminazione di cui sono vittime nel mondo i gay. Che cosa ha detto, in sostanza, l’Osservatore permanente della Santa Sede alle Nazioni Unite? Che il Vaticano è assolutamente contrario a qualunque vessazione inflitta agli omossesuali, e ancor più condanna qualunque violenza o persecuzione loro inflitta in qualunque parte del mondo. Chiede solamente che l’atto solenne delle Nazioni Unite sia non solo categorico ma anche lineare. Che nel momento stesso in cui vuol condannare, di fatto non apra stumentalmente ad altre questioni o ad altre prospettive. Chiede che non ci si serva di una sacrosanta condanna per "costringere" i Paesi ad aderire a scenari antropologici in contrasto radicale con il punto di partenza. Tutto qua. Lei dice che Gesù Cristo una simile posizione non l’apprezzerebbe. Nel mio piccolo penso esattamente l’opposto. E reputo che faccia bene la Chiesa ad essere, nel consesso delle nazioni, un segno di contraddizione, che obbliga a svelare le intenzioni dei cuori, a smascherare eventuali doppiezze, a denudare le possibili furberie. Che faccia bene, in questo caso, proprio nel momento in cui afferma i diritti sacrosanti di una categoria di persone (gli omossessuali), a preoccuparsi perché altre categorie in futuro non abbiano a patire per l’opzione di oggi. Perché i coniugi non vedano un domani squalificato il loro vincolo, e non sia messo a repentaglio l’equilibrio di crescita di eventuali figli di coppie gay. Vede, signora, a me pare che a noi, collaudati ormai alla vita della Chiesa, dovrebbe venire spontaneo chiederci, dinanzi ad un pronunciamento nuovo, che cosa in realtà voglia dire in questo determinato frangente la Chiesa. E a me pare che nostra madre abbia tutto il diritto di chiedere a noi una pregiudiziale positiva, ossia una disponibilità a valutare senza pregiudizi quel che lei propone, facendo salva la nostra libertà anche di dissentire una volta che abbiamo sinceramente cercato di capire la ratio interiore del suo pronunciamento. Se no, il nostro approccio diventa fatalmente quello della stampa laicista, che è anzitutto oppositiva, salvo poi in un secondo momento riconoscere anche il buono che c’è in una presa di posizione. Non sono preoccupato, signora, della linearità della nostra condotta, come Avvenire. Mi interessa molto di più salvaguardare un piano di dialogo con chi come lei oggi si sente spiazzata. Ovvio che mi lasci interrogare dalla sua dichiarata stanchezza, che vorrei tuttavia poter alleviare. Sinceramente però non mi viene in mente altro suggerimento se non quello di provare a cambiare punto di vista, guardando la realtà da un’ottica maturata nel vissuto della propria parrocchia e diocesi ¿ in esse, quanta gente, preti e laici, si prodigano per gli altri? ¿. Dove troviamo testimonianze come quelle di suor Caterina Giraudo e suor Maria Teresa Oliviero, dal 10 novembre trattenute in ostaggio e che si stanno giocando tutto, compresa la vita, per testimoniare Gesù e aiutare i più miseri della Terra? Io sono umilmente lieto della mia Chiesa, grato ad essa del Signore che mi dona ogni giorno con la sua presenza.