Di fronte a tragedie come quelle della piccola Diana, la bimba di 18 mesi abbandonata dalla madre per giorni e lasciata morire nella culla per fame e disidratazione, è difficile trovare spiegazioni accettabili. Si è parlato di solitudine, di carenze nelle reti di vicinato, di familiari lontani, di disagio psichico, di difficoltà delle istituzioni nell’intercettare il bisogno sul territorio. Su queste pagine Marina Corradi ha affrontato con delicatezza e sensibilità il tema del buio esistenziale che può avvolgere le persone, del mistero che circonda quei buchi neri nei quali non è raro sprofondino gli individui. E Luciano Moia ha ragionato sulle pur incolpevoli assenze, come quella dei nonni, che hanno segnato il corso del dramma.
Ci possono essere, in effetti, spiegazioni che hanno un significato e resistono al confronto con una realtà che tuttavia resta imperscrutabile. In questa mappa vasta ma incompleta di un dolore senza limiti, c’è un aspetto che forse per pudore, o per paura della sua intima e profonda verità, non è però stato affrontato: quello che porta a considerare che al di là del gesto atroce compiuto da questa madre, le argomentazioni da lei fornite a giustificazione del suo comportamento sono tutte perfettamente razionali, un già sentito che è il sottofondo di quella quotidianità in cui c’è sempre meno posto per i figli. I bambini come un 'ostacolo', come un peso che impedisce di essere ciò che si desidera, un limite rispetto alle aspettative di un futuro con un nuovo compagno o una nuova compagna. Non è forse il ritornello che ricorre oggi ossessivamente nella melodia di quel vivere iperindividualista che determina gran parte del rifiuto dei figli nelle società avanzate?
Non si può arrivare a uccidere un bambino lasciandolo morire in nome della propria libertà: rifiutare l’idea di un figlio perché se ne ha paura non è la stessa cosa che commettere un infanticidio. E quelle argomentazioni ripetute in modo automatico dalla madre di Diana, come pezzi di ragione pescati nel grande racconto della modernità, e poi ricomposti a proprio beneficio come surreale e inquietante forma di autodifesa, non sono una giustificazione assolutoria. Ma si può essere ugualmente sconvolti nel notare che questo è esattamente l’impianto di motivi che riproduciamo per 'sopprimere l’idea' di un figlio, prima che possa essere concepito e che nasca, magari perché non c’è posto, perché limiterebbe le pur legittime aspirazioni di carriera, di relazioni, di vita e di futuro, aggrappati – come abbiamo bisogno di sentirci quando siamo soli e terrorizzati dal caos dell’apertura alla vita e al dono di sé – al filo sottile delle emozioni.
Come sia possibile che una madre abbia abbandonato una figlia non in grado di badare a sé stessa, per mantenere una relazione sentimentale, frequentando sagre e sorseggiando aperitivi mentre la piccola si spegneva, resta un mistero. Non è difficile capire che si possa arrivare a farlo proteggendosi da una rete di falsità, in un contesto in cui è faticoso rompere la superficie che tiene in piedi tante relazioni, anche familiari. L’intercalare della difesa materna, per quanto suoni insopportabile, è però lo stesso che forniamo ogni giorno come un pacchetto preconfezionato di motivi per accettare e giustificare una società in cui ci sono ancora troppi ostacoli al desiderio di figli, e che queste barriere forse non cadono perché gli stessi figli sono troppo spesso considerati, appunto, solo degli ostacoli.