Nessuno l’ha sentita. Eppure Diana, 18 mesi, abbandonata sola per sei giorni in una casa alla periferia est di Milano, deve avere pianto, deve avere chiamato. La mamma, presa da chissà quale tragico sbandamento, l’avrà forse anche sedata con la benzodiazepina trovata accanto al lettino: ma in sei giorni Diana deve essersi pure svegliata. L’hanno trovata già rigida nell’appartamento di Ponte Lambro, vicino all’aeroporto di Linate. Il biberon era vuoto. Diana è morta di sete, nella città schiacciata dai 40 gradi. La sua agonia silenziosa, nel week-end sonnolento, nei passi lenti dei vicini sulle scale, è qualcosa, fra tanti orrori che leggiamo, di ancora inedito, almeno a Milano.
La mamma, Alessia, 36 anni, separata, era andata nella Bergamasca con un compagno. «La bambina è al mare, con mia sorella», gli aveva detto. E in quei sei giorni i due sono perfino tornati a Milano per degli impegni dell’uomo: e no, Alessia non è nemmeno passata da casa. E forse Diana ancora era viva. Meno terribile è il gesto di una madre squilibrata che uccide in un impeto di follia. Ma questo dimenticare e lasciare morire, sola, una bambina, è al di là del tollerabile.
A Milano, non in una porzione di terra disperata. A cinque minuti d’auto dall’aeroporto di Linate affollato, taxi che vanno e vengono, valigie gonfie, frenesia di vacanze. Accidenti, il volo è in ritardo di tre ore, per ingannare il tempo si sta sullo smartphone. In quanti, ignari, chattavano con gli amici, mentre a cinque minuti da lì una bambina chiamava. Ci sono tanti modi per morire. Quello toccato alla piccola Diana è il peggiore: e non solo per la sete, il caldo e la fame, ma perché certamente lei chiamava la mamma. I bambini, quando sono soli, vogliono semplicemente la mamma. La aspettano, certi che verrà. Quella mamma non è arrivata. Quale malattia mentale, quale sotterranea avversione alla figlia doveva covare in sé, per abbandonarla così?
E non era nemmeno la prima volta. Le altre volte, però, era tornata in tempo. Questa, no. «Sapevo che poteva succedere», ha detto semplicemente al magistrato che l’ha mandata in carcere. Le vicine attonite, nella piazzetta dove si va con i passeggini. Diana, dicono, era silenziosa, magra, ma curata. I suoi vestitini sono ancora stesi ad asciugare sul balcone. Sventolano debolmente al vento bollente di questo luglio, come i palloncini bianchi che qualcuno ha appeso al cancello della casa, già sgonfi nel caldo. Sembrano bandiere bianche: come di una resa.
Sì, ci si arrende, non si riesce proprio a capire. E in verità, parlo di me almeno, non si capisce neanche Dio: dov’era, e perché muti i suoi angeli, in questo luglio africano, sopra quella periferia di Milano. Un buco nero. I buchi neri non esistono solo nelle galassie. Ce ne è anche, carsici, fra le nostre case. Ogni tanto ne emerge uno. Questo di Ponte Lambro, è una vertigine infinita. E non solo il caldo, la sete, il biberon vuoto ti tormentano. È che Diana chiamava la mamma. E fino all’ultimo istante, nell’agonia, era certa che sarebbe arrivata.