Quello del reclutamento dei docenti e ricercatori universitari continua a essere un campo minato, a rischio di opacità o addirittura di episodi di vera e propria corruzione. Lo ha ribadito il 14 giugno Raffaele Cantone, il magistrato che da quattro anni presiede l’Anac (Autorità nazionale anticorruzione). Presentando in Senato la relazione 2018, Cantone ha sottolineato come, nell’aggiornamento 2017 al Piano nazionale anticorruzione, un settore particolarmente sottoposto ad attenzione sia stato appunto quello accademico. Nel Piano, infatti, si trovano indicazioni su misure concrete da adottare da parte degli atenei. «Ora, però – ha detto Cantone – tocca a professori e ricercatori farsi protagonisti di un processo che rafforzi il prestigio delle università». La preoccupazione dell’Anac rispetto al mondo universitario è motivata dal fatto che l’autonomia (stabilita dalla legge 168/89) ha finito con il costituire un limite al controllo dello Stato sulle attività degli atenei, compreso il capitolo del reclutamento, andando a costituire «un limite o un freno alla necessaria istanza di vigilanza, che presiede alla efficienza del sistema». Detto in altri termini: stante il quadro normativo, lo Stato centrale non sempre appare in grado di garantire l’equanimità delle procedure.
L’Anac afferma che l’'autogoverno' delle istituzioni universitarie rischia di produrre possibili 'derive'. In particolare, viene segnalato il rischio che, nella fase di reclutamento locale, vengano privilegiati, di fatto, i candidati cosiddetti 'interni' (cioè che abbiano o abbiano già avuto una qualche forma di collaborazione con l’ateneo che bandisce un concorso). «Il localismo nel reclutamento – mette nero su bianco l’Anac – oltre a compromettere gravemente l’imparzialità del sistema, equivale a chiusura dei singoli atenei, non solo a soggetti meritevoli di altre università italiane, ma anche ai soggetti provenienti da università straniere e riduce gravemente la mobilità tra università diverse, uno dei punti di forza per assicurare libertà e qualità alla ricerca. Ciò a detrimento dell’attrattività dei centri di ricerca italiani nel sistema sempre più internazionalizzato della ricerca e dell’istruzione superiore». Da qui una serie di raccomandazioni alle università. Ad esempio, prevedere nei regolamenti interni che la composizione delle commissioni di concorso sia stabilita tramite sorteggio tra gli aventi diritto in ambito nazionale. Oggi invece accade che la commissione sia deliberata dal Dipartimento che bandisce un posto, magari (è quanto accade normalmente, anche se nessuno sarà mai disposto ad ammetterlo) dopo contatti informali con i futuri commissari per assicurarsi che garantiscano di far vincere il candidato desiderato dall’ateneo, cioè quello locale. O, ancora, prevedere una prova scritta da correggere in anonimato, considerata un elemento di maggiore oggettività: anche se va detto che in passato, quando ai concorsi da ricercatore gli scritti erano addirittura due, le cose non andavano molto diversamente, e l’identità dei candidati di cui si correggevano le prove era il classico segreto di Pulcinella.
Il fatto è che il reclutamento delle nuove leve all’università è da sempre avvenuto per cooptazione: il 'maestro' sceglie un 'allievo' e decide che sarà lui il 'successore' sulla sua cattedra. Peccato che la Costituzione affermi (all’art. 97) che per accedere a un posto di ruolo nella Pubblica Amministrazione bisogna passare attraverso un concorso pubblico. Ecco allora concorsi che si riducono a una formalizzazione puramente esteriore di una cooptazione di fatto. Tanto che se a un concorso universitario si presenta un candidato più titolato di quello per il quale esso è stato bandito (perché in un ambiente ristretto come è quello universitario, tutti sanno che quando si bandisce un posto, quel posto è per qualcuno), succede che l’intruso viene facilmente 'fatto fuori'. Con più o meno eleganza. Ferocemente (cioè con un giudizio molto negativo) quando il vincitore in pectore è parecchio più scarso. Con maggiore gentilezza (cioè elargendo un giudizio magari anche positivo) quando l’interno è sufficientemente titolato. Per blindare un concorso, spesso i Dipartimenti inseriscono nel bando un 'profilo' talmente specifico che sembra essere tagliato a misura di qualcuno. Così scoraggiando la partecipazione alla procedura di valutazione comparativa di altri candidati, magari dotati di titoli e pubblicazioni di elevatissimo livello in quel settore concorsuale, ma non specificamente attinenti alla particolare branca segnalata dal profilo. Sono, questi, i cosiddetti 'bandi-fotografia' (nel senso che è come se riportassero già stampata la fotografia del vincitore): esplicitamente vietati dalla legge 240/2010 (art. 24, comma 2, punto a), continuano a uscire senza che finora il Miur abbia fatto sentire la propria voce in maniera chiara e inequivocabile.
La situazione è nota a tutti gli operatori del settore, ma in molti – non solo i giovani e meno giovani rimasti 'fuori', ma anche alcuni professori ordinari che non approvano questo malcostume – non sono più disposti a tollerarla. Anche per questo è nato a gennaio di quest’anno l’OICU (Osservatorio indipendente sui concorsi universitari). Scrivono gli animatori dell’iniziativa: «Non sempre: premettiamolo. Ma che l’Università italiana soffra di un deficit di trasparenza nelle procedure di reclutamento, aggravato dalle più recenti riforme legislative, è un fatto difficilmente contestabile, al quale è necessario porre fine il prima possibile». L’Osservatorio segnala che negli ultimi mesi si è avuto, al riguardo, un incremento di reazioni di diverso tipo: alcune che passano per canali più 'istituzionali' (lettere, raccolte di firme, esposti al Ministero, ricorsi al Tar); altre che propongono di portare avanti dal basso azioni utili a monitorare e, in prospettiva, impedire gli illeciti, facendo sì che – scrive l’OICU – «(qualche volta) possa vincere il candidato migliore, anche se non è il candidato interno». Amara ironia, ma tutt’altro che ingiustificata. Nell’aderire all’Osservatorio, il professor Maurizio Punzo (già ordinario di Storia contemporanea alla Statale di Milano) ha scritto pubblicamente (e forse un po’ troppo severamente): «Quella dei concorsi è solo la punta dell’iceberg, ma è fondamentale, perché i mediocri che promuovono altri mediocri emarginando i meritevoli sono una parte fondamentale di un sistema moralmente e scientificamente (e didatticamente) sempre peggiore».
Problemi ribaditi a Palermo in un convegno organizzato da 'Trasparenza e Merito. L’università che vogliamo', un’altra associazione costituitasi lo scorso novembre con l’intento di rappresentare un punto di riferimento per coloro che intendano contrapporsi ad episodi di irregolarità nei concorsi universitari, con particolare riferimento alle procedure di assunzione e di progressione di carriera del personale docente, in modo da evitare l’isolamento di chi decida di reagire a eventuali ingiustizie. Al di là di iniziative lodevoli come queste, la sensazione, però, è che nulla cambierà davvero finché gli 'addetti ai lavori', vale a dire i professori universitari, e in particolare quelli che rivestono posizioni apicali, non prenderanno coscienza della distorsione etica e funzionale che prassi come quelle descritte rappresentano, con pesanti ricadute sull’efficienza e sulla competitività del sistema Paese.
La politica, per parte sua, deve farsi carico del problema. Tanto più che una delle due forze che sostengono l’attuale maggioranza sin dai suoi albori ha fatto del valore della trasparenza una bandiera. È questa stessa forza politica, peraltro, che ha indicato come premier il professor Giuseppe Conte, il quale, da docente universitario, immaginiamo sappia bene quanto il male sia vasto e radicato. Ma proprio perché proviene dall’accademia ha tutte le competenze necessarie a combatterlo, orientando nella giusta direzione l’azione dell’esecutivo. Questa oggi è la richiesta e la speranza di molti a cui sta a cuore il futuro della nostra società, in un contesto internazionale sempre più agguerrito e concorrenziale.