L’esecrazione per il massacro al «Charlie Hebdo» di Parigi ha avuto in tutto l’occidente parole di fuoco e di unanime indignazione. E forse ancora non basta, di fronte alla feroce determinazione dell’attacco, non basta a chiudere la partita. Le parole di rivolta possono diventare vane se non si comprende la ragione dell’accaduto e se si sbaglia, adesso, il da farsi. Nessun crimine si decifra senza indagare la criminogenesi, dicono gli studiosi. Il terrorismo non fa eccezioni. Bisogna trovare il nesso, la concatenazione, le radici motive, gli eventi scatenanti. Prima ancora di giudicare, esplorare le ramificazioni e l’intreccio del male, il suo perché; così solitamente riflette il diritto, ma anche la storia, la psicologia e infine la filosofia. Questo massacro non è una semplice criminale aggressione, è una specifica criminale vendetta. La sua firma di sangue porta la sigla del sacro; è la morte vendicatrice delle offese a ciò che nella religione islamica è sacro, è il macabro rito espiatorio che usa il sacro, lo usurpa, e noi sappiamo che intrinsecamente lo bestemmia. Sciogliere la criminogenesi che si traveste in simboli sacri significa purificare la fede in Dio dalla malvagità dell’uomo. Dio non vuole la morte e «non gode della rovina dei viventi»: il suo essere Misericordia è nelle fibre stesse della teologia islamica, tradita dai terroristi. Ma ora da noi si vanno versando fiumi di parole roventi e afflitte sulla libertà di stampa violata e sulla libertà di satira minacciata. Un cordoglio sui simboli quasi più che sui morti. Un cordoglio che sembra un grido di battaglia contro il sacrilegio inverso commesso dagli assassini per spezzare «le matite» della libertà. Anche questa sembra una sigla sacra, un rito pieno di dogmi, il timbro della civiltà dei lumi violata dai barbari. Per questo non serve e basta a superare lo schema ostile frontale. Sui dogmi della libertà di stampa, occorre dire senza ironie, ma senza ipocrisie. Con il realismo di chi sa che la libertà non abita il mondo degli assoluti, ma si spende per intero nel mondo delle relazioni umane, e ha dunque a che fare anche con il rispetto degli altri, con la giustizia, con la verità. E riguardo alla satira, non è un salvacondotto il far ridere: non dipende dall’ironia o dalla risata se c’è un sale gustoso o un veleno nella battuta o nella vignetta, dipende dal pensiero contenuto. È il pensiero che segna la libertà. Ci sono state, nella storia del costume, satire provvide e satire infami. Per esempio le vignette antisemite del Terzo Reich, con la caricatura dell’ebreo, naso adunco e mani rapaci, disegnate con le matite dell’odio, sono un esempio di satira infame. Torniamo dunque alla libertà, e al limite della sua rivendicazione, quando invade e offende la sfera intima che altri uomini hanno cara (e rivendicano libera). Osserviamo come nella criminogenesi delle vendette giocano le 'provocazioni', intenzionali o involontarie o persino inavvertite. Per far cessare delitti orrendi come quello di Parigi la cosa peggiore per noi è difendere come una contro-religione la libertà di schernire come ci piace la religione altrui e di sghignazzare sui simboli sacri di chiunque. Chi lo va facendo, non prepara la pace; non può avere nemmeno dialogo credibile con i rappresentanti dell’islam per emarginare le cellule del fanatismo; non può illudersi che i 'lumi' in cui dice di credere non siano spenti quando l’uomo si sente nemico, si fa nemico. Lo scontro di civiltà è la cosa più incivile.