Gisella Bottoli, Brescia
Dirigo Avvenire, gentile signora Bottoli, e non sono, dunque, il portavoce del Ministero della Salute o del sottosegretario Eugenia Roccella (madre di famiglia e ottima collega giornalista, oggi impegnata in politica, che non merita sarcasmi, ma alla quale farò comunque girare la sua email). Mi limito quindi a constatare che lei non legge molto il giornale a cui pure si rivolge, altrimenti saprebbe che domenica scorsa abbiamo pubblicato un editoriale di Francesco Ognibene molto chiaro sulla scelta – per noi giusta – di fare del 9 febbraio una «giornata di tutti e non di qualcuno», dedicata cioè alle persone in stato vegetativo, alle loro famiglie e ai medici che lavorano e ricercano in questo delicatissimo campo. Da ciò che scrive deduco, inoltre, che si è informata su tali questioni prevalentemente altrove. Se avesse letto Avvenire (l’unico a scriverlo sempre con chiarezza) saprebbe, infatti, che Eluana Englaro non viveva grazie a tecnologie, ma veniva semplicemente nutrita e idratata grazie a un sondino, come tanti altri disabili e malati gravi o gravissimi.«Lasciare che la natura faccia il suo corso», lei dice. Ma nel caso citato, questo «lasciare» non ha significato sospendere la somministrazione di medicine o l’azionamento di macchine (non c’era neanche una spina da staccare), bensì non dare più da mangiare e da bere a una persona.«Nessuno ha diritto di ergersi a paladino» di qualcosa o di qualcuno contro altri, lei aggiunge. Sicura? E quando c’è in questione qualcosa di grande: la democrazia, la libertà di coscienza, la pace? E la vita – anche di una sola persona: italiana, eritrea, rom, giovane, vecchia, infelice, realizzata, violentata… – quanto vale e quando merita "paladini"? E, poi, provi a pensarci: è o non è un "paladino" di qualcosa o di qualcuno colui che – parente o giurista, cronista o medico o politico – si erge a giudice-portavoce della "dignità" e della "utilità" della vita di un disabile che non può esprimersi? E, ancora, se il disabile pensato come "non vivente" è invece (Max Tresoldi l’ha raccontato dopo essere uscito da uno stato vegetativo durato 10 anni) in grado di cogliere clima, presenze e parole attorno a lui? Per ciò che vale, per ciò che accade davvero nella vita della gente, gentile signora, bisogna saper spendere parole ed energie: tacere può essere un esercizio di umiltà e persino di carità, ma non è sempre una virtù.«Fare in nome di un Dio». Quando, di grazia, Dio è stato nominato, se non come consolazione («Dio ora stringe la sua mano», titolammo nel giorno della morte di Eluana)? Se non come implorazione? Tutto, invece, nel caso di Eluana è stato detto e fatto – da ogni parte – in nome dell’umanità. Di diverse idee di umanità. Da chi riteneva inutile e persa la vita di quella giovane donna e l’ha descritta come «già morta» (ma i fatti sono testardi: già morta non era, e per verificarlo basta leggere le carte dell’autopsia, che contengono anche la cartella clinica di Eluana…). E da chi – come me – riteneva, e ritiene, che non si può e non si deve procurare la morte di una persona non più capace di mangiare e bere da sola. E poi so che l’empatìa con chiunque non può mai esonerare, gentile signora, dal dovere di riconoscere e dire la verità. Non una verità astratta e dogmatica, bensì una verità umanissima, incontrata, toccata con mano, sperimentata vivendo.E verità è anche la nostra debolezza di essere umani davanti a certe prove terribilmente dure. Che non tocchi a nessuno – e qui prego davvero Dio – la prova di essere chiamato a stare accanto a un ragazzo o a una ragazza o a una persona cara che, per accidente, vive una vita diventata a noi "normali" incomprensibile: una vita come assente eppure presente, che la scienza lentamente sta indagando con scoperte sui livelli di coscienza che affascinano, stupiscono e inquietano. Ecco perché in tanti hanno chiesto che nessuno osi più narrare e far narrare solo dell’amore ferito e della sofferenza di chi ha detto "basta", basta vivere. Ecco perché tanti chiedono – e anche Eugenia Roccella propone, a quel che so e capisco – che nessuno taccia più dell’amore, della sofferenza e del coraggio quotidiano delle migliaia di persone che affrontano vite in salita accanto ai propri cari gravemente disabili o malati. Che nessuno neghi e snobbi la scienza medica che non gioca con l’umano, ma lo serve. Purtroppo certa ribalta data e certi studiati silenzi ci sono invece stati, e ci sono ancora. Questi, per me, sono gesti da algidi "paladini" di qualcosa che non voglio definire. Sono inesorabili giudizi sulle "vite inutili". I giudizi più amari. Provi a ragionarci su. Ricambio il suo cordiale saluto.
© Riproduzione riservata
ARGOMENTI: