Caro Avvenire,
dopo molto tempo, per circostante fortunate, sono riuscita a tornare allo stadio di San Siro per vedere una partita. Ho iniziato ad andare allo stadio da bambina, sulle ginocchia di mia mamma e per tantissimi anni non ho perso una partita. Negli ultimi anni purtroppo per vari motivi non mi è stato più possibile andarci con regolarità. Il fascino di una partita allo stadio è intatto, le emozioni sempre uguali, l’odore dell’erba, in questa domenica bagnata, inebriante, l’attesa per l’inizio della partita palpitante. Lo stadio è un luogo “democratico”: ci sono i ricchi e i poveri, gli anziani e i bambini, i signori distinti e gli operai, coppie di coniugi attempati e combriccole di ragazzi. È sempre interessante vedere una umanità così varia e così variopinta. Osservavo la provenienza degli striscioni: città lontane, a centinaia di chilometri e pensavo ai tanti sacrifici di tempo e di soldi che le persone fanno per andare allo stadio. Mi sono un po’ commossa nel vedere tanti papà con i loro bambini che nell’intervallo estraggono dai loro zainetti panini imbottiti, arrotolati nella carta stagnola, sicuramente preparati da mamme premurose e rimaste a casa un po’ in pensiero. I ragazzi – la partita era all’ora di pranzo – avevano in tanti ancora le facce un po’ addormentate, forse dopo una serata finita a notte fonda. Eppure ho notato che qualcosa è cambiato e sono rimasta molto pensierosa. L’evento che vi si svolge è unico e irripetibile: quel gol, quella parata, quell’azione esistono solo in quel momento e non esisteranno mai più. Mi ha colpito, mentre mi guardavo intorno con curiosità, che le persone sembrano non essere più capaci di stare di fronte a quello che succede – in questo caso un semplice spettacolo. Tutti tengono in mano come un amuleto il loro smartphone, e chattano e guardano e aspettano una risposta. E intanto la partita si svolge. Come se si fosse sempre da un’altra parte, anche solo con l’attenzione e non si riuscisse a fermarsi e guardare e anche godere di quello che sta succedendo. Perché non siamo più capaci di essere davanti alla realtà così come accade, a maggior ragione a stupirci di fronte a una cosa bella – per chi ama naturalmente andare a vedere una partita di calcio allo stadio?
Eva L.
Rileviamo intorno a noi e fra noi stessi come i sintomi di una epidemia: un giorno un quotidiano mostra i turisti su una gondola a Venezia intenti a guardare non il Canal Grande, ma i propri smartphone. Un altro giorno arriva in redazione una lettera come questa, dove una donna che da parecchio mancava dallo stadio si accorge con stupore che, più che sul campo, gli occhi sono ormai puntati sugli schermi dei cellulari. E non parliamo di ragazzini soltanto, ma anche di adulti. Inedita, singolare epidemia: per la prima volta, nel nostro vivere quotidiano, alla realtà che sta sotto ai nostri occhi ne preferiamo un’altra, virtuale. Quasi che ci sia sempre qualcosa di più attraente di ciò che abbiamo concretamente di fronte. Perfino nella bellezza del Canal Grande: quei turisti stanno riguardando forse il selfie scattato un attimo prima, o il video girato pochi secondi fa. Quei tifosi magari cercano i video dei gol segnati in altri stadi. Comunque, non “sono” lì ora, in quell’istante, con gli occhi spalancati su un reale peraltro affascinante, e che non sarà mai più uguale a quell’attimo. Quanta vita ci perdiamo, annegando negli schermi dei nostri straordinari smartphone?
Viene da pensare a quante poesie non sarebbero mai state scritte, a quanti quadri non sarebbero mai stati dipinti, se fosse stato possibile con la semplice pressione di un dito catturare un’immagine, anziché restare lungamente a contemplarla, a decifrarla e interiorizzarla pazientemente nella memoria. Certo è più facile, davanti a qualcosa di bello, magari avere la tentazione di “possederlo” scattando una foto che ti porterai a casa, invece che esporsi alla fatica della contemplazione.
Lo psicoanalista Erich Fromm, che annotava diversi anni fa l’automatismo con cui le prime schiere di turisti fotografavano a raffica le città d’arte senza quasi nemmeno guardarle, riportava una tale differenza di atteggiamento a quella tra la propensione a “essere” o a “avere”. Intendendo come “avere” la tentazione del possesso che prevale sul semplice, gratuito porci al cospetto di ciò che abbiamo davanti. Una innocua “mutazione” indotta dalla tecnologia? E quanto però alienante, se ci impedisce di stare di fronte alla realtà così come è, e assaporarla. Provare, qualche volta, magari nei giorni di festa, a disintossicarci. A porci in fronte alle persone e al mondo a mani vuote, liberi da obiettivi e da quella segreta tentazione di fare a meno della realtà, per cercarne, e forse possederne, un’altra.