martedì 23 novembre 2010
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Caro direttore,ma questa è vita? È la domanda fondamentale che non solo l’amico Brenna si è posto, ma tutti coloro che hanno in qualche modo seguito la tragica vicenda di Eluana Englaro. E poi «livello minimo di coscienza», l’altro aspetto per me centrale. Premesso che io parlo da laico non più credente e che una eventuale legge sul «fine vita» riguarderebbe, ovviamente, credenti e non credenti in egual misura, quando mai sarà possibile raggiungere un punto di consenso generale, se usiamo parole alle quali attribuiamo un significato poco chiaro e, comunque, diverso, gli uni dagli altri? Nessuno, credente o non credente, può staccare quella spina a cuor leggero, perché per tutti la vita resta in fondo quella cosa misteriosa di cui dice Nicola Brenna, ma nella nostra esperienza umana associamo la vita prima di tutto al "sentire" la vita dentro noi stessi, al sentire il nostro corpo e poi alle relazioni e alle interazioni con gli altri esseri umani e con l’ambiente che ci circonda, non tutti sono capaci di attribuirle un significato che va oltre i sensi che ci consentono di sentirci vivi, e non c’è altro modo, per trovarci d’accordo, che stabilire alcuni criteri oggettivi per stabilire quando c’è vita e quando vita non c’è più, aggiungerei «vita che può essere degnamente vissuta in rapporto con se stessi, col proprio libero arbitrio, e con gli altri». Senza l’accordo su questi criteri base, credo che nella società continuerà una guerra ideologica basata su opposti pregiudizi, senza fine e senza costrutto. Grazie per l’attenzione e grazie per dibattere pubblicamente ed in maniera non dogmatica di un tema così difficile. 

Giovan Sergio Benedetti, Capannori (Lu)

Già, «nessuno può staccare la spina a cuor leggero», gentile signor Benedetti. E quando non c’è neanche una spina da staccare, ma solo un sondino di alimentazione da negare? E quando non c’è neanche il sondino, ma una mano che accompagna un’altra mano? E quando la capacità di relazione e di interazione della persona malata diventa per noi non percepibile o non rilevante o fastidiosa secondo i canoni della "normalità" (o della comodità)? E quando la scienza che indaga sugli stati di coscienza ci spiazza – e lo sta facendo a ripetizione – rivelando aspetti inaspettati e nuovi anche a proposito delle cosiddette condizioni vegetative? Per questo l’essere «non dogmatici» – lo sforzo che lei, da non credente, ci riconosce – è l’unico atteggiamento serio quando ci si accosta per malattia o per amore, per esperienza e per ragionamento all’infermità e alla disabilità nelle sue forme più dure; quando ci si affaccia all’estrema frontiera della morte (che per noi cristiani è appunto solo questo: una cruciale frontiera, irripetibile proprio come la vita, e non la fine del viaggio). Per questo sono convinto, e sperimento, che è necessario e utile a tutti – a chi crede e a chi non crede – essere risoluti e niente affatto ambigui nel dire non slogan d’occasione e ideologici mantra, ma parole piane e semplici sulla dignità e sul valore di ogni istante di vita. Quanto ai «criteri oggettivi per stabilire quando c’è vita e quando vita non c’è più», se siamo appunto oggettivi, caro amico, possiamo riconoscere che già oggi ne abbiamo. E che sono condivisibili e, infatti, ampiamente condivisi. Questi princìpi sono alla base, per esempio, di una buonissima legge dello Stato italiano, quella che regola la benedetta generosità della donazione di organi. Quel positivo impianto e quei prudenti e saggi criteri sono, com’è noto, discussi da qualcuno ma considerati validi da quasi tutti. E anche dalla Chiesa. (mt)
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