Marina Vitali, Parma
La sua amarezza, cara professoressa Vitali, è vibrante. Ed è in forte assonanza con battaglie ideali che, da anni, sulle pagine di Avvenire trovano tenacemente spazio. Come quella per restituire ai cittadini il potere di scegliere col voto i propri rappresentanti nel Parlamento nazionale, ponendo fine alla ormai troppo lunga stagione delle designazioni degli eletti da parte dei capipartito. Stavolta, però, mi vorrei soffermare su un’altra questione, prendendo spunto dal passaggio del suo ragionamento sulle cause della profonda crisi dell’attuale bipolarismo. È vero che essa sta avvenendo per «sfilacciamento» di rapporti tra diverse personalità che hanno egemonizzato la scena pubblica in questi anni. Così come è vero che non la si può certo definire il «frutto di un progetto culturale» sensatamente alternativo e già ben delineato. Ma è altrettanto vero che nella nostra società – pur drogata dai riti della politica- spettacolo – sta crescendo l’esigenza di ridare «basi solide» all’agire politico. E che sta aumentando anche la consapevolezza di come questo significhi archiviare la stagione delle contrapposizioni leaderistiche e meramente "contro", degli esasperanti frazionismi personalistici e degli ideologismi miopi (ovvero senza valori forti e senza i "pensieri lunghi" che ne discendono). Monta, insomma, in settori importanti e vitali la voglia di lasciarci alle spalle una stagione nella quale "fare" politica ha coinciso con lo "stare" con un capo o ai suoi antipodi, e raramente ha saputo mostrarsi e dimostrarsi l’attuazione della benedetta libertà di prendere (e fare) partito, cioè di mettersi al servizio di una causa secondo ben definiti ideali di riferimento, con disciplina e dedizione, ma concependo e interiorizzando anche una fedeltà che precede e illumina ogni scelta di campo. Perché non basta, non basterà mai, la possibilità di schierarsi e di alternarsi al potere se non si accetta la grammatica dei princìpi che fondano la convivenza civile (che viene prima ancora di quella democratica) e se non si coltiva, con sobrietà e misura, il senso dello Stato e delle Istituzioni. Per questo, gentile signora, io – che pure non ho visto nascere quel capolavoro di buon diritto e di buon italiano che è la nostra Costituzione – non riesco a concepire la Carta promulgata il 27 dicembre 1947 solo come una preziosa vestigia del passato. È una eredità viva, non immodificabile in diversi titoli eppure straordinariamente attuale e utile con il suo corredo di valori condivisi e condivisibili anche nella "fase nuova" che ci sta davanti. Credo che questa consapevolezza dovrebbe appartenere a tutti, ma in special modo a coloro che con autentica ispirazione cattolica vivono già l’impegno politico o che – ascoltando i ripetuti incoraggiamenti del Papa e dei vescovi – intendono accostarsi a esso. La «cultura» che lei invoca come fondamento di una ritrovata qualità e altezza della politica, cultura che per i cattolici ha il fascino e la profondità della Dottrina sociale della Chiesa, non si esaurisce ovviamente in quella che degnamente abita la nostra Legge fondamentale. Ma in essa, nel suo «grande pensiero» – le rubo questa immagine – la nostra sensibilità cristiana trova laicamente eco robusta e ottima sostanza. E i cattolici, a differenza di alcuni altri, inclini a letture convenienti o studiatamente polemiche, sanno che non si può accogliere a metà – o persino a un quarto – lettera e spirito della Costituzione.Marco Tarquinio