Davide Carubelli, Vimercate (Mb)
Quello del delicatissimo rapporto fra pubblicità e minori è un problema affrontato spesso da Avvenire. Purtroppo la pervasività della pubblicità – divenuta spesso, in virtù della forza economica e «culturale», il vero padrone dei media – fa sì che l’attenzione dovuta al mondo dell’infanzia, sia nella confezione dei messaggi, sia nella loro divulgazione (talora malamente fuori contesto, come nel caso da lei descritto) non di rado manchi clamorosamente. Certo i codici in materia non mancano, documentando una sensibilità che in Europa si è fatta largo, per fortuna. La legislazione della Gran Bretagna – ma anche della Romania – ha, per esempio, recentemente imposto un giro di vite strettissimo agli spot riguardanti tabacco e alcol, proprio per garantire protezione a fanciulli e adolescenti. Naturalmente, tali iniziative hanno senso se, poi, si tiene conto delle fasce orarie di trasmissione, nonché dei luoghi in cui si incontra il «pubblico» interessato, e fra questi ci sono sicuramente le sale cinematografiche, soprattutto quando in programmazione ci sono pellicole per bambini. In tali circostanze, aziende, media pianificatori e gestori devono evitare la trasmissione di immagini «forti» o comunque non adatte ai piccoli. Non si chiede, ovviamente, di rinunciare a priori a inserzionsti e introiti, ma di scegliere e modulare spot appropriati al pubblico in sala. È – lo ripeto – semplicemente un atto dovuto. Non si tratta, insomma, di demonizzare la pubblicità, ma di evitare di «stressare» – con scene e messaggi che in qualche caso risultano sgradevoli anche a non pochi adulti – dei minori che sono già quotidianamente coinvolti in processi di sempre maggiore «precocizzazione». Il rischio è far loro del male e, comunque, di rubare loro ciò che ancora resta dell’infanzia. Un rischio imperdonabile, anzi un vero e proprio delitto, da parte degli adulti. Non ci rassegniamo a vedere i piccoli ridotti solo a «consumatori».
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