Caro Avvenire,
il tunnel del Frejus da mesi è presidiato dall’esercito. Tredici chilometri pericolosissimi, se percorsi a piedi come fanno ora i migranti e faceva mio papà nell’immediato dopoguerra. La Francia era la sua America, come oggi per i disperati in cammino per il mondo irto di muri. Papà mi raccontò, prima di morire, come si stendeva prono a terra, al passaggio del treno, nel buio che sapeva di fumi e caligine. Una fuga terribile, ieri come oggi; un incubo per raggiungere un sogno legittimo: vivere e costruire un futuro.
T.A.
Lunedì su un treno merci, al valico con il Brennero, gli agenti di frontiera hanno sentito un pianto disperato. Sul pianale di un vagone, solo, c’era un bambino sui cinque anni. Accanto aveva una valigia, forse abbandonata da chi lo accompagnava. L’altra mattina al Brennero c’erano cinque gradi, e il bambino era quasi assiderato. Lo hanno avvolto in una giacca, lo hanno portato all’ospedale. È riuscito a dire di chiamarsi Anthony, e che viene dalla Sierra Leone. Nient’altro. Quali circostanze hanno portato una madre a abbandonare un figlio così piccolo? O forse quella madre è fuggita ai controlli, oppure è morta, scivolando dal suo insicuro rifugio? Semplicemente, mentre tutta Italia parla della esclusione della Nazionale dai Mondiali, un bambino di cinque anni, solo, sul punto di morire di freddo, alla frontiera con un Paese sbarrato. Ma quanto somiglia il viaggio di questo Anthony a quello dei migranti a piedi nel tunnel del Frejus, e anche a quello del padre del nostro lettore: che raccontava come, quando si sentiva il treno avvicinarsi, ci si sdraiava sul marciapiede del tunnel, il volto a terra, il fumo e la polvere che toglievano il fiato. Quanti anni fa? Appena dopo la fine della guerra. Sessanta appena, i clandestini eravamo noi. Nel giorno in cui il commissario Onu per i diritti umani avverte la Ue che non si può continuare a chiudere gli occhi davanti agli orrori della detenzione di centinaia di migliaia di profughi in Libia, la storia di Anthony, arrivato chissà come e per quali travagliate strade dalla Sierra Leone, incarna questo dramma nelle fragili membra di un bambino. Chissà che viaggio, nel fracasso di acciaio del merci, chissà quando si è accorto di essere rimasto solo; e quel freddo che lo stringeva come una tenaglia, quel freddo che, lui nato in Africa, non aveva immaginato mai. E la paura, quanta. Paura, come quella negli occhi dei clandestini nel buio del tunnel del Frejus, dove nel nero cieco d’improvviso si accendono i fari lucenti di un treno, e ti incalzano, e già ti sono addosso. Paura, come quella che aveva il padre del nostro lettore in quella galleria, in un tempo non così lontano. Se almeno riuscissimo, oltre alle dispute, alle ideologie, a un crescente razzismo, a immedesimarci nei pensieri di Anthony e dei fuggiaschi sui treni, di quelli che camminano nei tunnel con il cuore in gola, di quelli che trattengono il respiro nei loro nascondigli per non essere trovati, ai controlli. Non risolveremmo il problema migratorio, ma intanto per un momento vedremmo il mondo con gli occhi loro. Almeno per un momento saremmo più fratelli, e più umani.