Gentile direttore, è ormai diventato un obbligo interessarsi dei nostri “guai” economici. Io non ho ricette, non possiedo formule, non ho numeri da dare. E nemmeno credo che la questione debitoria sia legata ai numeri o alle percentuali. La matematica c’entra, eccome, ma come elemento della cultura che, a mio parere, è la causa di quanto stiamo vivendo. Insomma non è una questione di soldi, ma è una questione culturale. È vero, i vescovi ce lo hanno detto più volte, tant’è che hanno elaborato il “progetto culturale”. Lo hanno fatto non perché sentano la mancanza di poeti e filosofi, ma, perché questo Paese da anni si sta complicando la vita con formule effimere e ha preso strade superficiali in assenza di responsabilità. È certamente un luogo comune, ma in tutti i campi l’abitudine è fare quel che ci pare, al di fuori e al di sopra di qualsiasi regola. Ed è fin troppo evidente la mancanza di obiettivi, anche minimi. L’importante è far vedere o dare l’impressione di fare qualcosa, insomma illudere, così come fa la televisione. Non vorrei passare per il “difensore” dei vescovi ma stanno dicendo a tutti noi una cosa davvero seria. La televisione si vede e non educa all’ascolto (che è diverso dal mero sentire). Le uniche “istituzioni” che hanno sottolineato come la mancanza di cultura eroda le basi del nostro malandato sistema sono state la Chiesa, la Banca d’Italia e Confindustria. Io credo che lo abbiano fatto perché più degli altri hanno saputo ascoltare la realtà e la gente. Ho partecipato recentemente a un’assemblea di politici, traendone un’impressione deprimente. Come parlano? Ogni argomento è occasione di litigio, di separazione. A lungo andare, anche noi ci siamo abituati al loro linguaggio e parliamo come parlano loro e di quello di cui vogliono farci parlare. Ma in casa non parliamo forse di lavoro, dei figli, della scuola, del futuro, di come investire i nostri risparmi, della qualità della vita, delle nostre città? Non ci preoccupiamo forse di quelli che stanno peggio di noi (e non mancano quelli che se ne assumono coraggiosamente anche il peso)? La politica parla di questo? I politici parlano di debiti che, per la verità, ci palleggiamo ormai da decenni. Oggi, è vero, c’è un problema contingente che sposta al di là il mio ragionamento ma, se noi vogliamo evitare di tornarci nuovamente, ammesso che ne usciamo, dobbiamo prendere coscienza che certi vuoti culturali non sono più ammessi. Ci devono spiegare come abbiamo fatto ad accumulare tutti questi debiti. Insomma qualcuno si è comportato da irresponsabile, qualcun altro non ha fatto il suo dovere. Allora cosa vogliamo fare? Abbandonarci al Far West, cioè tornare al facile e superficiale «facciamo come ci pare»? Vogliamo continuare a illudere e a illuderci o sarebbe meglio educarci, assumere una cultura, imparare a vivere finalmente? Al di là delle diverse ricette, alle quali non credo più – e s’è capito – c’è una decisione che ciascuno deve prendere e riguarda la sua vita personale perché tutto dipende dal singolo e non da Tremonti (che se fosse dipeso da me non ce lo avrei mandato dov’è). Grazie e perdoni la lunghezza.
Angelo Altobelli
Grazie a lei, caro signor Altobelli. Il suo ragionamento calza e incalza. Anche se all’annotazione che fa per per ultima mi preme aggiungere – usando le sue parole – che lì dove oggi è il ministro Tremonti io «non ci avrei mandato» neanche l’ex ministro Visco... Negli ultimi diciassette anni e mezzo, infatti, ho visto – da cronista e da cittadino – fare e disfare di tutto sul piano delle politiche economiche e fiscali: deduzioni, detrazioni, esoneri, tassazioni, agevolazioni, tagli... E ho purtroppo visto molto più entusiasmo e quasi più dedizione nel disfare (ciò che era stato impostato da altri) che nel fare in positivo. Senza una visione antropologica feconda e coerente, senza una capacità davvero politica di preparare il futuro, e soprattutto continuando a mortificare il soggetto in grado di garantire ancora e sempre alla nostra società un tasso confortante di stabilità e di solidarietà e una spinta decente verso il domani: la famiglia. Lo diciamo da tempo su Avvenire, e non ci stancheremo di farlo. Se lei fa discorsi calzanti e incalzanti, noi cerchiamo di non essere da meno...Devo poi dirle che quando evoca una cultura fuori centro o assente, mi fa pensare proprio ai vuoti di comprensione e di azione appena descritti: vuoti riempiti di «debiti» economici e finanziari, ma anche valoriali e demografici. Penso allo smarrimento del senso di ciò che è fondamentale (a cominciare dal rispetto per la vita e la dignità delle persone e dalla valorizzazione della loro relazionalità naturale, prima di tutto familiare, perché nessuno nasce da solo e nessuno può essere lasciato indietro...) nonché, conseguentemente, del senso delle priorità “di governo”. E constato, con lei, che nel vaniloquio menefreghista, relativista e soprattutto (ma non solo) televisivo che rappresenta la colonna sonora ufficiale del nostro tempo quei «debiti» comuni continuano a gonfiarsi e a schiacciarci: tra un talk show eccitato e una fiction sgangherata, tra un tg distratto e una rissa premeditata, tra mille indugi sui fatti di sangue e nessuna attenzione per le storie all’insegna del dono e della legalità.Ma ci sono voci, come quelle di Papa Benedetto e dei nostri vescovi, che escono dal deludente coro che imperversa, e indicano un’altra direzione, propongono un’altra consapevolezza e un altro uso del tempo e della comunicazione, chiamano a un’altra e più alta qualità della politica. È il momento di starle a sentire, quelle voci. E, come lei dice, di ascoltarle davvero.