Caro direttore,
Andrea Pio è un bambino bello, affetto da una grave, rarissima patologia. Ha solo 8 anni, e da sempre porta sulle sue piccole spalle una croce troppo pesante per non accasciarlo. Eppure ha tanta voglia di giocare, vivere, viaggiare. Da due anni è ricoverato in Inghilterra. Il papà, la mamma, i due fratellini più grandicelli hanno chiuso la porta di casa per inseguire la speranza. Domani era previsto un breve ritorno a casa prima di riprendere le cure. Andrea e la sua famiglia erano felicissimi. Noi li stiamo aspettando da due anni per poterli riabbracciare. Andrea Pio, però, abita a ridosso della zona industriale di Caivano, proprio dove mercoledì si è sviluppato l’orribile incendio in un sito di stoccaggio. E la paura dei genitori, che non li aveva mai lasciati, ha ripreso a galoppare. La gioia del ritorno è svanita nel giro di pochi minuti. I biglietti già fatti, le valigie pronte, i documenti in ordine. Che fare? Papà Nicola chiede ai medici, mostra loro le foto e i filmati dell’incendio, spiega che cosa avviene nella zona dove hanno la casa. Loro, i medici inglesi, alzano le spalle, spalancano gli occhi. Ognuno è responsabile delle sue azioni, nessuno può prendere decisioni per altri. Si può consigliare, non si può obbligare. Nicola insiste. «Se Andrea fosse mio figlio, lo terrei lontano da quel luogo», dice alla fine l’uomo in camice bianco. Quante volte in questi anni abbiamo sentito le stesse parole da tanti medici. Che fare? Rinunciare a quella sorta di breve vacanza che Andrea Pio stava aspettando da mesi? O rischiare di mandare all’aria i piccoli progressi fatti in questi ultimi due anni? Nicola e Angela prendono la loro decisione. Saliranno sull’aereo alla volta dell’Italia, ma giunti a Roma, non scenderanno verso casa loro. Hanno chiesto e ottenuto ospitalità altrove. Per Andrea una gioia dimezzata, per Nicola, Angela e per noi un’altra ferita da lenire, ma la cosa importante è tenerlo al sicuro. Rosa, invece, la mamma di don Vittorio, soffre di bronchite cronica. La febbre non la lascia mai del tutto, soprattutto di sera, sovente torna a farle visita. Il respiro è affannoso, il volto sofferente, le forze scarse. Da mercoledì è chiusa in casa, con le finestre serrate, il condizionatore spento. Fa caldo, fuori l’aria è pesante, puzza di bruciato e di marciume. E lei, Rosa, non ce la fa a respirare. Occorrerebbe portarla subito in un luogo più salubre e sicuro, ma dove? I poveri non hanno molte possibilità di scelta. Caro direttore, l’incendio di mercoledì pian piano si andrà spegnendo. Tra pochi giorni di certo ci diranno che gravi conseguenze non ce ne sono state. La nube tossica ha saputo distribuire equamente le sue dosi di veleni. Grazie a Dio, l’incendio non ha provocato morti. E la vita, ribelle a ogni ostacolo, riprenderà il suo corso. Fino al prossimo incendio, fino alla prossima rivelazione. Nessuno si farà carico di badare alle piccole, dolorose storie di ogni giorno. Un pensiero caro per il piccolo Andrea al quale è stata sottratta la gioia di ritornare a casa sua, di rivedere i suoi cuginetti, gli amici, la sua chiesa. Un pensiero caro per Rosa e per tutte gli ammalati dei nostri paesi che, chiusi in casa in queste giornate afose, non ce la fanno a respirare. Potrebbe, direttore, questa lettera scritta senza alcuna pretesa, che non ha niente di tecnico, servire per richiamare l’attenzione di chi ci governa sui risvolti umani di queste tragedie che si potrebbero evitare se solo si avesse, da parte dello Stato e degli imprenditori onesti, un pizzico di intelligente prudenza? Se solo si avesse, da parte dello Stato, per gli imprenditori disonesti la volontà di sorvegliarli, perseguirli, punirli quando la loro pazza e illogica sete di denaro li fa diventare peggiori delle bestie? Grazie, direttore. Grazie per dare voce, anche dalla «terra dei fuochi», a queste piccole grandi storie. Capaci, se solo lo vogliamo, di suscitare in noi il desiderio di voler essere e rimanere uomini sempre dalla parte dei fratelli più piccoli, più fragili, più bisognosi.
don Maurizio Patriciello
Che cosa posso dire di più, caro padre? Che cosa tu puoi dire di più? E quante volte lo abbiamo già fatto da queste pagine di 'Avvenire'? Tante, troppe e mai abbastanza. Oggi vorrei solo aggiungere un pensiero riguardo a quelli che fanno il mio mestiere. Siamo giornalisti e dovremmo essere persone di coscienza, consapevoli del fatto che dare voce a chi viene ascoltato molto poco e addirittura per nulla è una delle cose che ci tocca di saper fare. Ma c’è anche un limite che dobbiamo riconoscere e che dobbiamo darci, c’è cioè un dovere di non fare che ci incalza con la stessa identica intensità. È l’impegno a non fare male, un impegno che dobbiamo sentire, interiorizzare e interpretare per poter vivere ed esercitare in modo davvero libero e responsabile il compito di informare e il 'potere' che a esso è connesso. Questo, prima di tutto, significa che non possiamo mistificare la realtà, mai. I lettori sanno e tu, caro don Maurizio, sai altrettanto bene che amo parlare chiaro. E dunque ripeto ancora una volta che, mentre scrivo queste cose, penso a me stesso e ai miei compagni di lavoro e al dovere di non essere superficiali e di tenersi alla larga dalle semplificazioni estreme e, ancor più, dai pregiudizi. Ma penso anche, e con amarezza, a quei colleghi giornalisti – e ai politici e ai gruppi di interesse a cui purtroppo essi 'danno voce' – che sulle pagine dei giornali (quelle di carta e quelle digitali) ma anche per radio e in tv, da ormai un quarto di secolo, a cadenze regolari e con tenacia degna di miglior causa, continuano a raccontare che la «terra dei fuochi» è una bufala. Fake news come va di moda dire e scrivere adesso. Lo hanno detto e scritto proprio mentre i «fuochi» malsani tornavano ad ardere e a intossicare nei pressi della tua parrocchia a Parco Verde di Caivano. E già sappiamo che lo diranno ancora e ancora lo strilleranno con titoli grandi, grossi e cattivi. Lo dicano ad Andrea Pio, allora. Dicano a lui, a sua mamma e a suo papà, ai suoi piccoli amici che la «terra dei fuochi» non esiste. Lo dicano a Rosa. E lo dicano a tutti gli altri che quell’aria respirano, quelle acque bevono, quelle notti roventi e assediate attraversano, quelle fughe dalle proprie case privano, se appena possono, a organizzare… Lo dicano a loro, se ne hanno il fegato. E trovino il coraggio di farlo guardandoli in faccia. Tu lo sai bene, don Maurizio: il coraggio vero è di chi resiste a tutto questo male e al suo sovrappiù parolaio, un fumo nero e fetido come quello generato dai «fuochi» che, una volta per tutte, bisogna decidersi spegnere con scelte politiche e con civile impegno. Ho scritto 'spegnere', ma in realtà penso a un verbo e a una determinazione assai più forti. Dal destino di una terra che, per secoli, il mondo ha chiamato felice quei «fuochi» vanno sradicati.